Ambrogio

– La Signora ha chiamato?
– Si, Ambrogio. Ho bisogno di un po’ d’aria: portami in giro per la villa.
Il maggiordomo è sulla porta, fermo sul riposo come un militare.
– Sarebbe meglio che restasse a letto come le ha consigliato il medico, Signora.
– Sono tre giorni che sono bloccata in questo letto. Sono sicura che fare due passi mi farà bene. Soprattutto se ci sei tu ad accompagnarmi.
Sotto i baffoni grigi di Ambrogio affiora un sorriso. Si avvicina e mi porge la mano.
– Dieci minuti, Signora. E non dovrà fare storie quando l’infermiera le farà l’iniezione serale.
– Abbiamo un accordo – Gli stringo la mano e accetto che mi circondi il fianco con l’altro braccio. – Però mi sentieri meglio se l’iniezione me la facessi tu.
Il suo sorriso si allarga. Mi aiuta a indossare l’accappatoio giallo e mi accompagna fuori dalla stanza.
Scendere gli scalini è faticoso. Stringo la mano di Ambrogio e il corrimano nell’altra. Arrivati al terzultimo scalino, il ginocchio destro mi cede, ma il maggiordomo blocca la caduta con il suo corpo.
– Si sente bene, Signora?
– Si… grazie – Abbasso lo sguardo: ora quella di fare una passeggiata non sembra più un’idea così brillante.
Ambrogio solleva la manica dell’accappatoio e controlla l’avambraccio. Sotto le bende si intravedono i segni del morso del cane randagio.
– I punti non si sono riaperti. La ferita le fa male?
– No, Ambrogio. Sarà che il Dottor Condorelli mi ha imbottita di antidolorifici, ma non sento nulla.
Lui annuisce e mi accompagna in giardino.
Il sole è allo zenith e la luce mi infastidisce gli occhi. Li copro, con la mano, ma il maggiordomo mi passa un paio di occhiali da sole.
– Tu mi vizi, Ambrogio.
– Faccio solo il mio dovere.
Peccato non possa fare niente per il profumo dei fiori. Di solito mi piace fermarmi ad annusare i roseti e i cespugli di gelsomino, ma sento che, se lo facessi adesso, potrei rimettere quel poco che ho mangiato a colazione. Senza contare che lo stomaco sta andando in tutt’altra direzione.
– Ambrogio?
– Signora?
– Sento un leggero languorino.
– Vuole che vada in cucina a prepararle qualcosa?
Scuoto la testa.
– No, no. Non è che abbia proprio fame: è come se avessi voglia di qualcosa, ma non riuscissi a capire cosa.
Ambrogio sorride. I baffoni grigi tremolano.
– Signora, se mi permette, so perfettamente di cosa ha voglia.
Mi stringe forte a lui, mi appoggia una mano sulla guancia e mi bacia. La sua pelle profuma di acqua di colonia, ma non è spiacevole. Gli sposto la testa e muovo il volto sul collo, prendendo un profondo respiro.
La testa mi gira e lo stomaco sussulta.
Le mani di Ambrogio si fanno più audaci.
– Devo dedurre di aver intuito correttamente, Signora?
– Ambrogio, non sono mica la mamma.
Lui ride.
– No, non lo è: sua madre non si sarebbe accontentata di annusarmi. Mi avrebbe assaggiato.
Prendo un altro respiro. Non è l’acqua di colonia a inebriarmi: è la pelle.
Lecco il collo rugoso dalla base fino alla guancia. Muovo la bocca fino all’orecchio.
– Penso che seguirò il tuo consiglio…
Spalanco la bocca e lo azzanno al collo. Il sangue è dolce come vino pregiato e la sensazione di debolezza che avevo sentito negli ultimi giorni scompare. Ambrogio urla e prova a spingermi via, ma resto aggrappata a lui. Lo mordo più in basso, recidendo la giugulare.
Un ultimo gorgoglio e la resistenza si spegne.
Lo appoggio a terra, leccandomi le dita coperte dal delizioso nettare.
– Avevi ragione, Ambrogio: non era fame, era più voglia di qualcosa di buono.