
Il nonno lo fissava con gli occhiali abbassati sul naso e due ciuffetti di capelli bianchi sparati ai lati del capo, da gufo.
Cesare spostò il peso da una gamba all’altra.
“Devo scrivere la parola in piedi”
Le sopracciglia folte scattarono in alto.
“In piedi?”
“Sì, insomma, una lettera sotto l’altra”
“In colonna!”
“E ogni lettera deve essere l’iniziale di una parola”
“Un acrostico, parola che viene dal greco. È facile, dai”
“Nonno, non lo studiamo il greco in quarta elementare”
Il gufo abbassò lo sguardo sul giornale brontolando e smise di dargli retta. Cesare tornò a sedersi e di tanto in tanto lanciava occhiate oblique verso l’anziano. Dietro le lenti spesse, le palpebre erano abbassate o no? Allungò il braccio verso il telefonino e il nonno si schiarì la voce. Cesare ritirò la mano.
Almeno ad avere uno spunto! Quelle lettere incolonnate si burlavano di lui. La parola era: Intelligenza. L’argomento del componimento doveva essere quello? La maestra non l’aveva detto, o forse l’aveva fatto mentre lui era distratto. Gli restava il dubbio. E cosa avrebbe potuto dire lui dell’intelligenza, che tutti trattavano un po’ da scemo?
A scuola bastava nulla a distrarlo, si lamentava la maestra, e lui non poteva negarlo, si annoiava a morte e qualsiasi cosa era meglio di quella voce cantilenante, sempre uguale.
La mamma per punizione non lo faceva giocare se non finiva i compiti, ma non lo aiutava. Suo padre non c’era mai. Il nonno avrebbe potuto, ma faceva sempre il confronto con le cose che studiava lui, quando era bambino, e gli faceva capire che avrebbe dovuto già sapere tante cose che invece ignorava.
I compagni, infine, lo prendevano in giro perché parlava poco e male. Non gli venivano le parole, si confondeva, sudava. Nessuno aveva la pazienza di aspettare che scegliesse cosa dire.
Perché in effetti non è che non gli venissero proprio le parole, anzi: gliene venivano tante, troppe, al punto che ci si perdeva. Avrebbe avuto bisogno di calma, ma tutti andavano di fretta e Cesare parlava sempre meno, e sempre peggio.
Dunque, doveva essere scemo.
Quel compito, per esempio. Gli altri l’avevano cominciato già in classe e c’era chi l’aveva anche finito prima della campanella.
Lui era ancora bloccato sulla I. Quante parole aveva trovato che iniziavano con I? Infinite. E dietro ciascuna, un possibile pensiero. Ma il tema? Perché mica poteva infilarci un insetto, per esempio, se doveva essere sull’intelligenza.
Forse.
Aveva visto in TV api che costruivano celle esagonali, perfette e tutte uguali, come lui non avrebbe saputo neanche disegnare col righello. E parlavano: con i gesti, con le ali, con una danza che diceva alle compagne dove trovare con esattezza i fiori, distanti chilometri.
Forse potevano dirsi intelligenti, le api.
Tornò a fissare il nonno-gufo.
“Nonno, cos’è l’intelligenza?”
Il rumore di fogli lo colse di sorpresa. Brusco, il movimento di abbassare il giornale e di girarsi verso di lui.
“Che domanda è? Stai facendo i compiti o ti sei distratto?”
“No, no, è per il compito. Gli animali sono intelligenti?”
“Stai facendo biologia?”
“No, devo scrivere quella cosa di prima… ”
“E gli animali che c’entrano?”
“Cercavo di stabilire chi è intelligente e chi no. Le api sono intelligenti?”
“Certo che no! Ubbidiscono solo all’istinto”
Cesare annuì. Quindi proprio non poteva mettercelo, un insetto.
Venne sera e infine scrisse:
Idea
Nascosta
Tra
Esili
Linee
Luminose,
Ingenua
Gentilezza
Elegante,
Navicella
Zuccherata
d’Allegria.
A scuola, la maestra scarabocchiò un visto.
Isabel durante la ricreazione si sporse a guardare. L’unica tra tutte le persone che aveva intorno, a casa e a scuola, che si fermasse ogni tanto con lui, e che aspettasse mentre metteva in fila le parole.
“Che dice, la tua poesia?”
Cesare deglutì e cercò in giro qualcosa da guardare.
Isabel infilò il viso sotto il suo, a incontrargli gli occhi con i suoi, azzurri e curiosi.
“Di che parla, la tua poesia?”
Le rispose: “Di te”.
“Ah!” Si tirò su la bimba, e sorrise felice.
“Me la spieghi?”
Cesare andò in affanno.
“Sono un’idea nascosta?” Insistette Isabel, e Cesare annuì.
“Bello! Tra tanti pensieri?”
Cesare annuì di nuovo. Poi le indico la luce che pioveva dalle tende a veneziana, tante lamelle chiare che zebravano la classe, e la sedia e il banco dove sedeva durante le lezioni.
“Le linee luminose!” battè le mani Isabel. “E le altre parole?”
E un po’ chinò il viso verso la spalla, con fare birichino.
Cesare non avrebbe giurato sull’ingenuità, in quel momento, ma ai suoi occhi lei era quello: elegante nel muoversi, gentile nei modi, dolce e lieve come un veliero che solcava i sogni. E sempre solare, allegra.
Isabel lo abbracciò. “Grazie Cesare, è una bellissima poesia!”
L’unica a capire che aveva un senso. Intelligente, molto più del nonno e della maestra.
Lui invece era proprio ottuso, si ripeté per anni. Perché per Isabel rimase sempre un caro amico, mentre lui continuò a riempire quaderni e libri della sigla IO e IA.
Io l’Ottuso e Isabel l’Amore.