
Il mattino era gelido, il buio e la nebbia avvolgevano la radura.
Le grida di Menta avevano fatto tremare il bosco per tutta la notte, ora dalle labbra violacee della giovane fuoriusciva solo un rantolo roco.
L’Apprendista si avvicinò con una tazza di corteccia da cui si sollevavano nuvole di vapore.
“Ci siamo?” sussurrò. “Ho preparato ancora l’infuso di lampone.”
Tarassaco prese la tazza e sorseggiò per scaldarsi la bevanda destinata alla partoriente: aveva freddo, la trama ruvida del mantello lasciava passare mille aghi di gelo. Non si poteva lamentare, nella Comunità, in quanto levatrice, aveva diritto agli abiti e ai cibi migliori.
“No, non ci siamo. Non ci saremo mai. Bisogna dirlo al padre”.
Gli occhi di Ribes si spalancarono e si coprì la bocca con una mano.
“Menta è giovane, forte. Hanno concepito nel bosco, a primavera. Quest’estate ha mangiato i frutti e le erbe che servono. In autunno ha danzato fra le foglie che cadevano.”
“E in inverno morirà.”
Le labbra di Ribes tremavano.
“Tu hai nome Tarassaco perché è una pianta che cura. Fai qualcosa.”
“Le erbe non curano un utero che non si contrae e non girano un feto podalico. Ci vorrebbe ben altro. Chiama il padre.”
“Cosa dici? Il padre canta sulla vetta, come è costume della Comunità.”
La voce della levatrice si fece più fredda della brina. “Che la smetta di cantare e venga a salutare la sua donna per l’ultima volta.”
L’Apprendista scappò nel buio del bosco, perdendo nella corsa una babbuccia di betulla.
Il cielo si stava schiarendo in una livida aurora.
Tarassaco prese la mano della partoriente e la strinse; prima che le lacrime le offuscassero la vista, guardò comparire all’orizzonte il fantasma della città, sporca e rumorosa, che aveva sempre odiato.
Con un singhiozzo riconobbe il rettangolo sgraziato dell’ospedale dove aveva lavorato per anni, prima di cambiare il camice con una tunica di erbe e il suo nome con quello di una pianta officinale.