Il buco della luce

Un buco in un bosco o è una tana o è una tomba, o almeno così credeva Guim. Glielo aveva detto suo padre, quando gli aveva insegnato a tirare con l’arco, a distinguere i funghi velenosi e le orme nel fango. Ma quel buco, quella grossa spaccatura, non era nessuna delle due cose.
Allungò il lanternino e illuminò le impronte di suola che stava inseguendo. Scendevano nella crepa.
«Dera! Dera!»
La sua voce, il nome di sua moglie, si propagò tra gli alberi nodosi. Un gufo si agitò su un ramo, facendogli piovere addosso aghi di pino e polvere. Guim scrollò le spalle e la fiamma nel lanternino traballò. «Cristo, Dera!»
Dalle impronte non sembrava che fosse scivolata giù, ma perché non gli rispondeva? Puntellò i piedi tra le rocce e si mise a scendere. Il cuore gli pulsava così forte che lo sentiva premere contro la gola. Avrebbe potuto vomitarlo lì, e allora sì che quel buco sarebbe diventato una tomba.
Un lampo bianco rischiarò la discesa. Guim strinse le palpebre. Lo aveva immaginato? Corse più veloce, aggrappandosi alle rocce, affondando le unghie nel muschio.
Passò in una strettoia che si allargò dopo pochi passi. E sua moglie era lì, dritta nel suo scialle grigio. Guardava verso l’oscurità del buco.
«Dera…»
Lei sussultò. «Oh, sei qui. Sai come chiamano questo posto?»
«Andiamo via, è buio. Fa freddo e mi sto pisciando addosso.» Le mise una mano sulla spalla, «Sono stanco dei tuoi giochetti da pazza. Cristo!»
Lei si voltò. I capillari rotti sul suo viso sembravano macchie di ribes schiacciato. Gli strinse la mano, come fosse stata la radice che le impediva di cadere in un precipizio.
«Buco della luce.»
«Cosa?» Lo aveva già nominato. Era in una di quelle fiabe che lei si leggeva sempre, quella sui mangia-bambini. «Andiamo a casa?»
«Non ho mai giocato con te.» Gli sorrise, «Non la senti? C’è magia in questo bosco.»
Lui si liberò dalla sua mano. «Ma che diavolo ti prende?»
«Non mi ha preso il diavolo.» Si sistemò i capelli dietro le orecchie e rise, «Ma forse… Forse lo sono io.» Ai lati del suo collo erano stati piantati dei piccoli chiodi arrugginiti, cerchiati da sangue rappreso. «Ma guardati! Hai quella tua odiosa espressione stupida. È per questo che non ti darò mai un figlio.»
Guim indietreggiò. «Tu non sei mia moglie.» Agitò il lanternino per tenerla lontano.
«Tu mi hai scelto, in salute e malattia.» Dera allargò la bocca e snudò una serie di piccoli denti affilati. «Senza sapere quali fossero i miei segreti.»
No, quelle non erano le labbra che lo avevano baciato, i denti che lo avevano morso… E i suoi piedi… Non aveva più le scarpe, e da sotto la veste spuntavano delle grosse zampe di gallina.
«Vuoi catturarmi come una delle tue prede? Vuoi uccidermi e spellarmi e mangiarmi?» Lei unì i polsi, «O vuoi aspettarmi a letto, da bravo marito?» Lo seguì e lui urtò con la schiena le rocce ruvide. «Vuoi scappare? Perché ti troverò.» La sua voce gli strisciò nell’orecchio, in un sussurro. «Ti troverò e sarò io a mangiare te. Proprio come ho fatto con tuo padre.»