
Immagina un regno, né brutto né bello. Un regno che ha un nome, ma non lo posso dire ancora.
La sera della grande riunione gastroide la luce nella sala era soffusa: candele e pavimenti lucidi. Immaginati una tavola lunga, scanni di legno scuro e piatti d’argento. A capotavola il capocuoco (ovvio), dita di cannolo, unte come burro, labbroni tirati su denti e resti di sugo.
Ai lati individui orribili: fattezze porcine e risatine aspirate, con lunghe lingue pelose tenute avvolte sul palato. Non possono che disgustarci, me e te, se ci fermiamo a immaginarli.
Non sono i soli, dammi retta ancora. Sono tanti, si fatica a contarli, anche perché non stanno fermi, si abbracciano, si leccano le guance e i gomiti a vicenda, ridono e si gongolano.
Quelli sotto il tavolo lasciamoli perdere: lo fanno tutti, che chi vuole attenzione fino a umiliarsi, raramente la riceve. Bene, sono tutti cuochi, in questo regno, né bello né brutto, ma tanto miserabile da spezzarti il cuore.
Decine, forse centinaia di cuochi. Ed erano lì, quella sera, per discutere come sempre dell’arte gastroigniomica (che nemmeno sanno più di che parlano).
Ed eccolo, un cuoco, grasso anche lui, ma meno unto. Gioca con l’orecchino: una perla candida in un gancio d’argento, e pare agitato (lui, non l’orecchino).
E senti di che parlano, comincia il molle capocuoco: “Amici, subalterni, artisti del forchetto!”
Ellallà! Tutti applaudono e grugniscono.
“Quest’anno abbiamo cucinato pietanze, tutte ricche e profumate, recanti seco la magnificenza dell’arte gastroignomica.”
Ellallà di nuovo. “Ma la gente muore di fame, porcoilregno!”
Indovini chi ha parlato? Il cuoco con l’orecchino d’argento, ma nessuno lo fila. Quelli sotto il tavolo si scansano, perfino.
“La culiinarietà è sfolgorante e onora la tradizione.”
Uno dei coglioni al fianco si alza in piedi “Non ci sono più i cucchiaieri di una volta!”
Il capocuoco lo accarezza sulla testa e scoreggia, l’altro si risiede e dissimula, pure quando il porcellone del capo sospinge l’odore verso di lui.
Il cuoco con l’orecchino piange, si alza. “Voi non avete idea di come si cucinava davvero!” Nessuno lo ascolta.
Il capo si lecca le labbra con la lingua bovina, una goccia di saliva densa gli cola sul mento. “Gli assaggiatori giocano alle proteste: dicono che il polistirolo non assorbe bene il saccarosio” Un coro di buu! “Dicono che l’arsenico sia solo un pallido ricordo delle tinte antiche” Buu! “Ma io dico che la cibariezza…”
“Basta!” Il cuoco con l’orecchino salta sul tavolo, calcia un vassoio e colpisce uno sulla fronte. “Queste sono tutte cazzate! In questo regno derelitto si mangia solo robaccia!” Io lo immagino giovane, ma non è per forza così. “La merda! Come fate a vantarvi? Voi la cucina la uccidete così! E poi vi lamentate che nessuno ha più voglia di mangiare?”
Si fa silenzio in tutta la sala, ma solo perché è una storia.
Il grassonazzo (che hai capito di chi parlo) lo guarda. “Non sei un cuoco tu pure? Non vuoi annoverarti cinque minuti tra i talenti gastrici?”
“Io…” piange, poverino. “Io sono diventato cuoco perché mi piaceva mangiare bene. Ma ora non c’è più nulla di buono.”
Mormorio. Quelli sotto il tavolo sono emozionati, ma guardano ai sopra per capire la reazione da tenere. Quelli al tavolo guardano al maialazzo, qualcuno insulta direttamente il cuochino, qualcuno ha chiuso gli occhi (Tu? Io ci devo pensare).
“Punto di vista insolito, quello del mangiante” dice l’orco puzzoso. “Cosa suggerisci?” E al mormorare seguente “Perché non si dica che non diamo ascolto a tutti i lati della faccenda.”
“Cuciniamo come se amassimo anche mangiare” propone il cuochetto poveretto.
E sai come finisce?
Il giorno avanti, sulle tavole più prestigiose del regno circolò un piatto di carne saporito e sugoso. La portata pel re, arrangiata a cono rovesciato, aveva sulla sommità un orecchino d’argento con incastonata una perla.
Il nome del regno? Ma su, che l’hai capito.