
Creeeepa. Creeeepa.
Mi blocco di scatto. Gli animali non fanno così. Gli animali non parlano. «Hai… Hai sentito anche tu?»
«No.» Tilda avanza di un altro passo nell’erba scura e umida. «Io non ho sentito niente.» Si circonda la bocca con le mani, formando un cono. «Non ho sentito niente!» ripete più forte. Le sue labbra si piegano in un timido sorriso. Ogni volta che mi sorride così è come se delle dita invisibili stessero sollevando il sasso che mi preme in fondo alla gola.
«Ecco, ora se c’è qualche mostro si mangerà solo te.»
Mostro? «Fo-forse… Dovremmo trovare un altro posto.»
«È perfetto, invece.» Si gira e riprende a camminare, «Sarà stato un uccello, prima, non preoccuparti.»
Sbuffo. Vorrei poterlo fare, vorrei non dovermi più preoccupare di nulla, ma sono il fratello più grande e devo badare a lei.
La testa di una bambola che sbuca dal suo zaino mi ricorda nostra madre, ma forse non dovrei pensarci.
Raggiungiamo la cima dell’altura e ci fermiamo in un parcheggio. Tilda si avvicina al cofano di un’auto e ci si issa sopra. Tira una pacca al metallo, «Fermiamoci qui.»
Sospiro, non dovrei lasciar decidere a un’adolescente.
Che cosa farebbe la mamma? No, non dovrei pensarci. Ci avrebbe detto di cavarcela da soli, perché era questo che voleva da noi. Da me.
L’edificio in rovina oltre la fila di macchine sarà disabitato?
Hote. Alla vecchia e grande insegna manca la L, ma i neon rossi che compongono le altre lettere funzionano. Anche i lampioni, per fortuna, in questa zona continuano a funzionare e la loro luce rende opaca la notte.
Quella sopra di noi è un’oscurità diluita e soffocata. Respiro a fondo. La paura vorrebbe soffocare anche me.
Tilda ha le dita protese verso il cielo e le piega come se volesse grattare via l’inquinamento luminoso. La sua salopette di jeans sembra un prolungamento del colore del cofano, come se fosse diventata una strana antenna del catorcio.
«Va tutto bene?»
Lei annuisce e ritrae la mano.
Una nuvola di insetti si avvicina alla lettera O e passa attraverso il buco. Questo hotel aveva di sicuro un nome, una volta, ma il vento deve averglielo strappato via.
«E tu? Va tutto bene?» Tilda mi guarda come guarderebbe qualcuno in procinto di buttarsi da un ponte. Mi rendo conto che non ce lo chiediamo quasi mai e forse è proprio la paura che ci impedisce di farlo.
«Stavo solo pensando.»
«A cosa?»
A niente. Niente di diverso dalla desolazione in cui siamo stati condannati, ma mi sforzo di dirle qualcosa di luminoso, perché lei non è nostra madre. «Un giorno avrai un futuro. Magari dei figli.»
«Ah.» Tilda piega un ginocchio e tira un piede sopra il cofano. Le sue dita giocherellano con i lacci infangati della scarpa.
«Dico sul serio. Saresti una buona madre, ogni tanto potresti raccontargli quelle tue storie paurose.» Il fiume di parole che mi sta uscendo di bocca somiglia a quello che si è portato via mezza città. «Ma… Ma li stringerai forte e avrete paura insieme.»
«Non sarò mai una buona madre.» Scuote la testa così forte che i capelli crespi le frustano il viso. «Non in questo mondo.» Fissa lo sguardo sui resti scuri della città. Il gorgoglio del fiume si sente anche nel buio. Non è mai fermo, non smette mai di ricordarci che siamo solo dei sopravvissuti.
E io non riesco più a guardare. Non voglio pensare ai cadaveri che sono finiti sul fondo dell’acqua fangosa, incastrati sotto le auto, tra gli edifici crollati.
Tilda si stende sul cofano e forse è il senso di colpa che le fa stringere le palpebre in quel modo, come se qualcuno le avesse tirato un pugno nello stomaco. Mi stendo vicino a lei e le cingo la vita con il braccio.
«Mi dispiace.» Allungo la mano e gliela poso sul petto. Respiro a fondo.
Tilda si rannicchia contro di me. Con gli occhi così chiusi sembra morta. Il suo cuore però batte ancora, e anche se è una bugia, mi dico che non è più arrabbiata con me, che non mi sta ancora incolpando per la partenza di nostra madre. Se non in questo mondo, forse in un altro, dove c’è ancora vita. Dove siamo felici.
«Ho… Io ho una cosa per te.» Riapre gli occhi e ci rimettiamo seduti.
Tira fuori una bustina nera. È una delle confezioni di pepe che si è intascata quando abbiamo cercato del cibo in un fast-food. La apre.
«Mmh?»
Il suo gesto è veloce, inaspettato, e non riesco a fermarla.
«Merda! Tilda!» Mi strofino le palpebre. Il pepe brucia. Vedo tutto sfocato. I granelli mi raschiano gli occhi come unghie.
Tra le lacrime la intravedo correre. Ha rubato il mio zaino che le sbatte contro la gamba.
Sta scappando. Mi sta abbandonando, proprio come ha fatto mamma quando mi ha costretto a prendermi cura di lei, in un posto del cazzo che è finito travolto da un fiume.
Vorrei inseguirla, ma rimango fermo.
Vorrei urlarle contro e chiederle perché lo sta facendo, ma sto zitto.
È così strano. Mi sta tirando via qualcosa dal petto che la insegue lo stesso. Sembra speranza, ma pensavo di averla persa già tutta. È strano quasi come dire che buon sangue non mente.
(Copertina creata con CHATGPT)