Il Faro

Si può sentire la violenza del mare, la fatica fisica, la paura della protagonista sopraffatta dalle onde… Un racconto di Serena Aronica.

 
Oltre lo spesso vetro dell’oblò, scruto il mare. La burrasca lo agita e lo rende una belva incontrollabile. Nella luce del colore dell’acciaio vedo onde schiumanti, rollare verso il fianco della nave.
Ho paura.
Sobbalzo ad ogni tuono gutturale e cerco appigli ovunque, quando il mare schiaffeggia la mia nave. Tutto intorno a me scricchiola, persino i miei denti. Decido che forse è più saggio rannicchiarmi in una angolo della cabina. Adocchio un pertugio tra un basso scrittoio e il letto e mi ci lancio. Mi accuccio e mi tiro lesta le ginocchia al petto. Raggomitolata e tremante chiudo gli occhi, mentre la nave sfida la tempesta, ed il mare urlante.
Quando lo scafo si lacera, in realtà non mi accorgo di nulla. E’ un po’ come quando ci si stira un muscolo, e solo con il passare dei minuti arriva il dolore pulsante. L’acqua gelida dell’Atlantico penetra riottosa dallo squarcio e dilaga. Quando si infila sotto lo spiraglio della porta della mia cabina, il panico mi addenta la gola. Mi alzo in piedi di scatto e mi schiaccio contro la parete. L’acqua mi lambisce le dita dei piedi. E’ talmente fredda da farmi rabbrividire. Mi guardo intorno, mentre la luce dell’abat-jour inizia a vacillare, e già sento l’odore salmastro delle profondità marine. Quando la luce si spegne di colpo, l’intera nave tace. La sento inclinarsi sul fianco destro, ed emettere un cupo e basso rumore. Nel buio l’acqua mi sale di colpo alle caviglie e sento i piedi assiderarsi. Faccio l’unica cosa che in quel momento mi sembra sensata. Corro fuori dalla mia cabina.
 
Dalla scogliera, il vecchio faro getta la sua luce in mare. Nella sera che si appresta, il guardiano scruta l’orizzonte e vede una densa bruma levarsi dall’acqua. Si sistema il cappello di lana in testa e si liscia la barba bianca. I suo occhi colore del ghiaccio si fanno di colpo nuvolosi.
 
In un tripudio di legno marcio e viscide alghe, il mare mi restituisce alla terra ferma. Boccheggio e sputo acqua, mentre affondo con le mani nella sabbia fredda. A fatica mi metto in piedi, il gelo delle acque dell’oceano mi è entrato fin dentro le ossa. Un piedi avanti all’altro inizio a camminare. Dietro di me, tra i flutti tumultuosi la nave affonda.
Nel doloroso smarrimento in cui mi muovo, alzo gli occhi. I capelli fradici mi coprono il viso, ma non mi impediscono di scorgere la calda luce del faro. Ne faccio il mio filo di Arianna.
Giungo alla porta di legno e la spingo con una mano violacea. Mi trascino sempre più a fatica su per la spirale di gradini. Quando arrivo infine in cima, la luce mi avvolge e mi riscalda.
«Rose?» mi chiama una voce famigliare.
«Papà…» e mi getto verso le sue braccia.
 
L’uomo trattiene il respiro un attimo appena, mentre lo spettro gli si schianta contro. Un delicato vapore lo avvolge e gli fa lacrimare gli occhi. Poi tutto tace e la bruma si ritira.
Si volta appena verso il mare assassino e la luce del faro sembra vacillare. L’uomo accenna un sorriso e tira fuori un fiammifero.
Anche quello può bastare.

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