
LUNEDÌ
Ho fatto i conti.
125 secondi a passaggio, 230 pezzi al giorno. Ci sono però le pause (2 da 5 minuti), le interruzioni dei colleghi, la pulizia della postazione a fine turno, gl’imprevisti. Nelle giornate buone fa 220 pezzi. In quelle cattive 200.
1 bancale contiene 80 pezzi. Ogni giorno ne escono non meno di 9 su 3 linee. Le giornate pessime non possono esistere, nemmeno quando un collega non si presenta con qualche scusa.
Come oggi.
MARTEDÌ
Nello spogliatoio c’è un tizio nuovo, un ragazzino tutto ossa e occhiaie. Spero non lo affianchino a me.
Raggiungo la postazione.
Afferro 1 piastra in alluminio dal rullo trasportatore, strappo via la pellicola protettiva. Le schede elettroniche alla mia destra.
Il ragazzino è più avanti, fine linea. Meglio così, nessuna rottura di palle per ogni cosa che non sa.
Prendo 2 schede, le sistemo sulla piastra in modo che i fori di fissaggio coincidano. Rivetto le estremità per bloccarle. Appendo la rivettatrice nell’alloggio, l’altra mano verso la scatola dei cavi rigidi in rame. Via il cappuccio plastico preinciso, la punta nel connettore d’ingresso della prima scheda. Taglio il cavo su misura con la spelafili manuale. Collego i circuiti.
Sono 4 le interdistanze a seconda del modello. Basterebbe programmare la tagliacavi con le lunghezze corrette anziché fare tutto a mano. Da quanti mesi l’ho proposto al capoturno?
MERCOLEDÌ
Foglio di produzione: oggi moduli ottici.
Frizione dell’avvitatore fissata su 6, velocità 2. 5 secondi a lente, 40 lenti a corpo. È tutta questione di coordinazione: una mano che raccoglie e posiziona le viti, l’altra che aggancia l’intaglio a croce e schiaccia sul grilletto. Con la movimentazione del pezzo finito sul rullo e la presa del successivo fanno 210 secondi, 120 pezzi.
Dal fine linea ronzii sordi e prolungati ogni volta che parte la frizione. Quello nuovo ancora va di velocità 1, ha paura di spaccare la testa delle viti. Fa 1 secondo in più a lente, 25 pezzi in meno a fine giornata. È lento.
GIOVEDÌ
L’orologio sul monitor della postazione dice che mancano 10 minuti all’inizio del turno.
All’altro lato del capannone una squadra esterna sta montando 1 macchinario. Non ci bado. C’è da recuperare i pezzi che quello nuovo non ha fatto ieri.
Frizione 6, velocità 2, batteria di riserva infilata nella tasca della tuta per non dover raggiungere il banco di ricarica a metà turno, che qui di darci gli avvitatori ad aria compressa non se ne parla.
Se salto il caffè recupero 5 minuti. Per fortuna ho fatto una colazione abbondante. Niente latte, però. Se sono fortunato non mi scapperà nemmeno di pisciare. Meglio non bere troppo.
Qualcuno alza la voce. Il novellino è ancora troppo lento.
VENERDÌ
Ancora indietro sulla tabella di marcia e quello nuovo non si è presentato. Sta male, dicono. Non ha la stoffa, dico io. Poco male. È solo questione di rifare i conti, qualche secondo da limare si trova sempre.
All’altro lato del capannone un fischio seguito da una cacofonia di cinghie che stridono e pistoni che sbuffano.
Il Capo fa segno a tutti di avvicinarsi. Ci mostra la Macchina, la accarezza. Dice che finalmente non dovremo più faticare, che ci penserà lei al nostro posto. Siamo liberi, ora. Possiamo andare.
I miei colleghi non rispondono. Si limitano a girarsi e ciondolare verso gli spogliatoi. Io invece rimango ancora un po’ a guardare la Macchina. Il Capo mi raggiunge, la sua mano sulla spalla. Dice qualcosa, ma non riesco a capire bene. Parla di futuro, di nuove rotte da seguire per l’azienda, di opportunità. Anche mie, ci tiene a sottolineare.
Mi accompagna verso l’uscita, una stretta di mano, i cancelli che si chiudono alle mie spalle.
Per la prima volta da molto tempo mi sento stanco.
Trascino i piedi fino alla fermata del bus. L’autista è quello solito. Sembra sorpreso di vedermi, eppure non dice nulla.
Attraverso la città seduto a fianco di una vecchina che non smette di sorridere mentre guarda fuori dal finestrino. Quando il bus si ferma decido di salutarla, non so il perché.
La via è lunga e diritta, alti caseggiati tutti uguali ad accompagnare i marciapiedi. Arrivo al numero 55, settimo piano. Sono 126 gradini. Li ho contati.
Infilo la chiave nella toppa ed entro. La casa è buia, le tapparelle tenute basse per non far entrare il freddo. Le lascio così e mi siedo in cucina.
L’aspetto.
E lei arriva, non so quante ore dopo, anche se in verità dovrei saperlo. I nostri turni sono sfasati di appena 30 minuti.
Erano sfasati.
Accende la luce del corridoio, mi vede al tavolo.
«Giornata pesante?» Si toglie le scarpe e appende la giacca imbottita della tuta da lavoro all’attaccapanni. Granelli di polvere e calce si staccano dal tessuto e scivolano sul pavimento. «Com’è andata al lavoro?»
Al lavoro… «Tutto bene.»
Sorride e si avvicina a piedi scalzi. «Stavo pensando…» Si siede sulle mie ginocchia, le braccia a cingermi il collo, un bacio che schiocca sulla guancia. «E se stasera ci prendessimo una pizza, ci guardiamo un film sul divano e poi facciamo l’amore?»