Aspettami in soffitta

Gal aveva riposto con cura il vecchio libro di fiabe nella cassapanca del corredo, alla sesta lettura aveva capito ormai, che la matrigna di Hansel e Gretel non li avrebbe tenuti con sé, per quante volte lo avesse riletto. Lo coprì con una federa e tossì quando sollevò una nuvola di polvere, spostandola. Si era stretta nello scialle di lana e aveva abbassato la luce della lampada, controllò che il grosso baule dove erano riposti gli incartamenti del vecchio Filip fosse ben attaccato alla finestrella circolare, non avrebbe certo dovuto essere lì e se qualcuno avesse visto una luce accesa in soffitta, a quell’ora, si sarebbe insospettito. Erano giorni che voleva guardare dentro quel baule. Il vecchio Filip era stato uno scienziato, le avevano detto. Un grande studioso e tutto, proprio tutto quello che aveva lasciato scritto, era conservato là dentro. Sarebbe stato fantastico se avesse trovato una formula per diventare invisibile, o per cambiare aspetto. O magari i piani per costruire un aereo fatto in casa, con i pensili della cucina e le tendine del bagno, o meglio ancora una formula che l’avesse resa invincibile. La sua curiosità però doveva aspettare ancora. Iwo le aveva detto di aspettarlo, che l’avrebbe raggiunta il prima possibile e quindi era una specie di patto. E i patti si rispettano, anche a otto anni.
Era passato tanto tempo però, ormai era notte fonda e di Iwo non c’era traccia. Aveva finito anche di mangiare il pane e burro. Aveva preso il piatto per avvolgerlo nel canovaccio, come le aveva spiegato sua mamma. Non aveva fatto cadere nemmeno una briciola, o sarebbero arrivati i topi e poi chissà cos’altro e aveva nascosto il fagotto nella cassapanca accanto al libro.
Si sentiva sola e aveva anche freddo, però non poteva tirar fuori le stoffe del corredo, o se fosse arrivato qualcuno non avrebbe fatto in tempo a rimetterle a posto. Si accoccolò vicino al baule del mistero, le ginocchia al petto e le braccia conserte a fissare lo spiraglio di luce che filtrava appena dalla botola, a qualche passo da lei.
 
Si era appisolata probabilmente, perché un rumore forte dal piano di sotto l’aveva fatta sobbalzare. Appoggiò le manine sulla botola cercando di spiare attraverso la fessura. Niente. Poi un altro boato e delle grida. Quello che urlava sembrava proprio il papà di Iwo, ma lei non poteva scendere, aveva promesso che sarebbe rimasta lassù, qualunque cosa fosse accaduta. Che non si sarebbe fatta scoprire.
Dei passi veloci su per le scale, tanti.
Si ricordò la procedura all’ultimo minuto e corse verso una vecchia toelette. Lo specchio si spostava e lei avrebbe potuto nascondersi nel vano all’interno. Spinse sulla parete liscia con entrambe le mani, finché non ruotò di quarantacinque gradi.
La botola si spalancò con un tonfo.
Iwo?
Il soldato le urlò qualcosa in una lingua che non conosceva e le puntò contro il fucile.
 
Gal non arrivò mai a Birkenau, e il suo nome si perse nella notte del 13 marzo del 43, in una soffitta di Cracovia.