Celso

Il rumore sordo dello scrocco mi fa saltare.
Come se non sapessi che il portone è così vecchio da voler andare in pensione, ma il dato di fatto è che non ho la disponibilità per corrispondere alla sua esigenza.
In ogni caso questo sussulto mi riporta sul piano della realtà, distogliendomi dai miei pensieri.
Sospingo cauta la porta alle mie spalle, dopo aver oltrepassato la soglia. Un atto di coraggio.
 
Celso, il mio gatto, mi si struscia sulle gambe mormorando la sua fame e mi rendo conto che il mio stomaco fa da eco al suo.
Da quanto non mangio?
Lascio le scarpe nell’anticamera, lì, davanti alla scarpiera, perché semplicemente non ho la voglia, forse la forza, di aprirla.
 
Un passo dopo l’altro, incerta un po’ indolente, mi avvicino alla cucina.
Scalza.
Mi ferisco un piede.
Osservo, priva di emozioni, la scia di sangue: probabilmente una scheggia di vetro.
Non mi importa. Non mi interessa risalire alle cause. Provare dolore è un bene. Mi fa sentire concreta: l’urlo che sento ancora nella mia testa diventa ovattato. Se sento dolore, allora, sono viva. Ancora.
 
Celso stasera dovrai pazientare, non ho scatolette per te. Solo croccantini, ma se mi prometti che al veterinario non lo diciamo, allora ci smezziamo la scatoletta di tonno rigorosamente al naturale che sbocconcellerò sul divano.
 
Un lieve concerto di fusa mi induce a pensare che, leggendomi come sempre nel pensiero, il mio morbido amico abbia compreso le mie intenzioni.
 
Raccolgo da terra la ciotola dell’acqua, completamente asciutta. Mi scuso con lui per averlo esposto alla sete e gli verso una generosa porzione di croccantini.
Sembra quasi chiedermi se deve aspettarmi, mentre schiviamo i cocci di ceramica sul pavimento.
Prendo una forchetta e mi allungo verso la dispensa, voglio tonno e lo avrò. Ci sto mettendo troppo e sento Celso sgranocchiare. Mi sale la nausea. Devo mangiare.
Lo perdono per non avermi aspettata.
 
Sullo sportello c’è una manata di sangue incrostato. La osservo come se mi potesse a sua volta guardare.
Non ci faccio caso – non razionalmente- al fatto che sia mia la mano, sia mio il sangue, ma mi travolge una consapevolezza bruciante: mi appartiene tutto, finalmente, di questa casa.
 
Il click metallico della linguetta mi raddrizza la schiena con un brivido.
Quanto ancora mi ci vorrà per tornare alla normalità? Chi si ricorda come è?
 
Celso, mi accompagna al divano, complice.
Mi lascio accarezzare il naso dalla sua coda, mentre con le dita prendo dalla scatoletta del tonno. Divido quello da porgergli con una mano, ne porto alla mia bocca un pezzo con l’altra. Ho perso la forchetta, ma non ho voglia di alzarmi a cercarla.
Celso sta leccando il bordo della scatoletta vuota, il raspare della sua lingua è metodico, attento, costante.
Il rumore della serenità.
Alzo gli occhi.
Quadri strappati, cocci ovunque. Le tende scomposte, buttate per terra.
Un tavolo rovesciato, oggetti qua e là. Un uragano avrebbe fatto meno danni.
Sospiro e -finalmente!- crollo.
Lacrime traboccano dai miei occhi, liberatorie, tiepide. Purificanti.
Singhiozzo così forte che mi sembra impossibile che tutto questo rumore sia io stessa a farlo. Sono totalmente offuscata. Assente, ho l’impressione di essere spettatrice di me stessa, di vedermi da fuori, seduta sul divano.
Raggomitolata, con Celso sul grembo, che mi guarda, il collo leggermente piegato di lato, un’orecchia più su dell’altra, i baffi che vibrano.
È finita, non temere” sembra dire mentre mi fa la pasta sulle gambe, con le zampe.
 
È stato orribile, mio Dio. Non si può spiegare con le sole parole.
Flash. Le sue mani sul mio collo. Buio. I colpi sul mio corpo. Luce.
lo spelucchino e l’assetta in cucina. Rosso. Un forchettone da portata.
Un sibilo. Celso prigioniero nelle sue mani. Sento soffiare. “lasciami andare
Nero.
 
Blu. Lampeggianti dell’ambulanza. Rosso, di nuovo, stavolta il sangue sulle mie mani, per terra, sui mobili.
Legittima difesa.
Verde i lividi sul mio corpo. Bianco, il sollievo, la liberazione.
 
Questo tonno adesso è buonissimo, ogni cosa ha un altro sapore.