
Non voglio tornare a casa.
L’ho arredata anche io. Ho scelto i mobili della cucina e i soprammobili, il colore delle pareti e le lenzuola.
Allora è casa tua, mi dico.
Ogni angolo racconta di me e ogni angolo mi è estraneo. Al buio mi muovo senza inciampare nelle sagome nascoste dall’oscurità dell’arredo, e se il gatto muove uno dei vasetti con le piante finte me ne accorgo subito.
Questa è casa tua, mi dico.
Anche se l’ha comprata Vittorio, è casa mia. Anche se io volevo il giardino e c’è solo un balcone piccolo. Anche se ogni volta che vedo un quadretto chiamo lui per chiedere se posso prenderlo, e se mi dice di no rinuncio. Anche se non ci sono i profumi forti – io li amo, Vittorio li detesta.
Questa è casa mia e me lo devo ripetere ogni mattina. È normale?
Oggi sono in macchina e non voglio tornare a casa.
Le luci della televisione attraversano le porte veneziane chiuse e colorano il balcone. Vittorio è in soggiorno.
Incontro il mio sguardo nello specchietto retrovisore. Deformo la faccia provata dall’allenamento in un sorriso forzato. Troppo forzato, più naturale. Incurvo leggermente le labbra verso il basso. Ecco il sorriso a cui ho abituato tutti. Così finto eppure così amato, come le piante che il gatto tira sempre giù dai mobili. Cadono ogni giorno eppure non si rompono. Le piante vere sono più belle, ma sono fragili. Amiamo le piante finte proprio perché non dobbiamo prendercene cura. Sono lì, belle sempre, come il mio sorriso finto.
Io a casa non voglio tornare.
La portiera della macchina, una rampa di scale, ventiquattro gradini, un minuto scarso.
Ecco cosa mi separa da casa “mia”. Lì sorriderò, darò un bacio a Vittorio e saluterò il gatto, racconterò qualche aneddoto divertente dell’allenamento e guarderò la televisione prima di dormire tra le sue braccia. Ed ecco consumarsi la routine del lunedì.
Sono infelice e sento di non averne diritto. Avere un lavoro, una persona che ti ama e una casa ti priva del diritto all’infelicità, ti obbliga a sorridere e a dire il mondo “sto bene”.
Come faccio a spiegare che non sono felice se neppure io ne conosco i motivi? Come faccio a spiegare che no, quella non è casa mia. Non bastano i mobili e i finti compromessi e le foto stampate in giro.
Signori, bene non sto.
Non sto bene in questo corpo, con le sue smagliature e la sua cellulite e il grasso e le imperfezioni. Anche questo corpo è come stare in casa d’altri, come stare in affitto. Lo guardo, vorrei cambiarlo per somigliare a quello che la società ritiene giusto. Essere più soda, più atletica, più magra.
Sempre più magra.
Eppure mi dico che non ne vale la pena, questo corpo non è mio, il restauro richiederebbe tempo e spese che non posso permettermi. Sono anni che provo a migliorarmi e sono anni che allo specchio trovo un’estranea deforme. Una casa orrida che mi ospita e che non mi appartiene.
Sono prigioniera di una matrioska: il mio corpo d’altri nella casa d’altri e mai nulla mi appartiene.
Il cellulare squilla e la faccia di Vittorio prende il posto dello screensaver floreale dello smartphone.
O scappo o salgo.
Apro la portiera, mi trascino su lungo le scale per i ventiquattro gradini ed entro in casa. Buonasera, dico col sorriso, bacio Vittorio e saluto il gatto.
Vorrei buttare il borsone sul divano e buttarmi nel letto, ma mi perdo nei convenevoli.
Come stare in casa d’altri.