
Stefano correva sul cavalcavia, saliva tenendosi sul bordo strada fino a raschiare la sacca con il cambio per la danza contro la rete metallica di protezione. Non si vedevano fari in arrivo. Gli stivali dei suoi inseguitori invece si facevano sentire. Prendere il ponte gli aveva fatto guadagnare metri, ma aveva sperato invano che la fatica li facesse mollare.
Più avanti la strada tagliava i vigneti e continuava ad essere deserta. Al di sotto invece le auto dei pendolari sfrecciavano a decine sulla statale. Non riusciva a pensare ad un modo per attirarne l’attenzione.
Osò voltarsi indietro, il più vicino dei teppisti era a metà salita. Il primo che aveva cominciato a seguirlo e insultarlo, quello che aveva ignorato, all’inizio. Una fortuna essersi accorto che arrivavano anche i compari, e via a gambe levate.
Oltre il ponte non c’era altro che aperta campagna, non avrebbe trovato aiuto contro la banda. I vigneti, interrotti solo dalla strada e da un casolare, parevano una cattiva idea, lo avrebbero rallentato.
L’edificio, in un appezzamento di terra che aveva concesso di crescere solo a rovi secchi, poteva dargli rifugio. Nessuno dei muri esterni pareva diroccato, fino al terrazzo sopra il primo piano. Le finestre ad arco, murate quasi completamente con mattoni di tufo bianco fino a lasciare una lunetta vuota da cui sarebbe passato al massimo un po’ di luce e il vento, contrastavano con il pesante portone di legno, lasciato invece accostato.
Forse poteva barricarsi là.
Approfittò della discesa per aumentare la falcata e non pensò ad altro che a non inciampare, non aveva intenzione di concedere quel divertimento ai suoi aguzzini.
Quando arrivò in fondo, prestò attenzione e si fermò, non udiva più alcun passo dietro di sé. Tutto pareva cessato, solo due dei ragazzi lo guardavano, fermi in cima al ponte, lontani perfino per tirare sassi. L’aveva scampata?
Si concesse di sorridere, avrebbe atteso che tornassero a casa per tornare indietro anche lui.
Fu il rombo dei motorini, ancor prima che la luce dei tre fari superasse la cresta del ponte, che gli fece venire la pelle d’oca. Non attese di averne conferma, prese a correre lungo la strada, verso il viale d’accesso del casolare, e poi verso il portone. Gli sterpi si aggrappavano alla tuta, ma non erano ostacoli che potessero fermarlo. E nemmeno le moto.
Barricare il portone o a nascondersi, non aveva alternative.
Come una lucertola fra le rocce sgusciò fra le due ante, poggiò la schiena e spinse perché quella aperta si accostasse all’altra serrando l’apertura. Ottenne di smuoverla, un acuto stridio di pietra contro pietra, e un breve graffio fresco sui lastroni del pavimento. Non abbastanza da tenere fuori gli altri.
I fasci di luce dei fari saettarono attraverso l’apertura, vincendo facilmente sulla flebile luce del crepuscolo che ancora entrava dalle finestre.
L’atrio d’ingresso era vuoto, nessun mobilio che potesse essere spostato, niente altro che segni di falò e di candele, spazzatura in ogni angolo, le porte verso due stanze minori e delle scale. Si immaginò topo, scappare via indisturbato; invece doveva giocarsi la pelle in quel postaccio sconosciuto. Scattò verso le scale a gradini bassi, di pietra, verso i piani superiori.
I ragazzi facevano rombare i motori, qualcuno prendeva a calci, o forse a spallate, la porta, per aprirla del tutto; un fracasso tale che Stefano non sentiva i propri stessi passi. Attraversò la stanza al primo piano, il pavimento di legno vibrava sotto i suoi piedi, come un palcoscenico. Anche quella era vuota. Raggiunse le scale dalla parte opposta, sentendo di nuovo la pietra sotto i suoi piedi. Inutile andare oltre, la terrazza non avrebbe offerto riparo.
Le moto invasero il piano terra, le ruote morsero le scale con un rombo assordante, salendo.
Quando spuntarono al primo piano, Stefano fu abbagliato da due fari, ma attese invano il terzo. Scomparvero, in un boato di ferro misto al gracchiare di legno in frantumi..