Dalì

Aggancio la telefonata e sbatto la porta. Il mancorrente della scala per il soppalco trema come per un terremoto. Lo afferro a due mani per annullare le sue e le mie vibrazioni. «Vaffanculo! Come ho potuto stare con quella stronza!»
Getto il cellulare sul divano, al buio. Non mi importa se si spacca. Che vada al diavolo, insieme a quella strega.
Illumino la cucina con il frigorifero. Due Moretti da 33, un vasetto di maionese e una confezione di lasagne precotte. Imposto tre minuti nel microonde. Bevo d’un fiato mezza birra. Il sapore amarognolo e gelido mi fa lacrimare.
Fottetevi. Tutti quanti.
Questa sera voglio dimenticare chi sono.
Il blister di Dalì è ancora sul lavandino del bagno. Ingoio due compresse, per sicurezza.
Il campanello del fornetto mi richiama in cucina.
Appoggio la mia monoporzione sul tavolino. Recupero il telefono. Lo innesto nel dock di collegamento.
«Joi, l’app di Dalì.»
Lo schermo del televisore cambia tonalità di nero. Un accordo di pianoforte annuncia il catalogo.
È uscita la nuova serie di Bosch: deve essere uno spasso, ma non è serata. Irene mi ha parlato bene della prima puntata di Rembrandt, ma quei mondi in costume piacciono solo a lei. Di Van Gogh ho già visitato tutto. La Scuola di Atene: troppo sofisticato. Il Giudizio Universale: troppo rumoroso. Le Muse Inquietanti: troppo angoscianti.
I confini dello schermo sono già sfumati. Fatico a mantenere lo sguardo fisso in avanti. L’effetto sta per cominciare. Muovo il cursore sulla scelta random prima che sia tardi. La spirale sovrapposta al logo vortica in senso antiorario. Non riesco più a tenere gli occhi aperti. Maledetta connessione. Finisce che mi sincronizzo con il segnale di caricamento e mi risveglio tra nausea e vomito.
La rotella gira all’infinito. Chiudo gli occhi sconfitto. Odio sprecare in questo modo le pastiglie.
Mi risveglio. La scritta “Samsung” rimbalza sullo schermo. Spengo il televisore. Barcollo fino al telefono. Controllo l’ora sul display. Quattro ore e due pastiglie buttate. Non mi resta che andare a letto.
Ancora intorpidito, mi aggrappo al corrimano e mi sollevo sul primo gradino. Fra una decina di scalini potrò tuffarmi sul materasso.
Tre, cinque, sette, nove.
Undici. Tredici.
Quindici?
Uso lo smartphone come torcia. Davanti a me, un’intera sequenza di gradini. Che vanno in basso. Ma che diavolo. Li scendo di corsa. Il telefono mi sfugge e vola verso il pavimento di sotto. Tento di afferrarlo, perdo l’equilibrio. Cado sul parquet di ginocchio.
«Porca troia, che male!» grido. Strizzo gli occhi e mi mordo la lingua mentre cerco di capire con chi prendermela. Il dolore non se ne vuole andare. Mi sono spaccato qualcosa.
Devo chiamare un’ambulanza. Cerco a tastoni il telefono nel buio. Niente. Mi trascino con la forza delle braccia. Ancora nulla. Un’altra spinta. Il parquet svanisce. Rotolo giù per altre scale.
Di nuovo sul pavimento. Il cuore batte a mille. Ho un lampo di lucidità e trovo la forza di sorridere: che tu sia maledetto, Escher.