
Era la terza volta che Giovanni passava dinanzi all’hotel Regina, quel pomeriggio.
Da due giorni Milano era sottosopra, tanto che anche lui, nascosto da mesi, era sceso in città, sicuro di non correr più pericoli.
La notizia gli era stata portata da un ragazzo mandato dal vescovo. Per quel che aveva capito, la divisione Garibaldi “Gramsci” era in città, di Mussolini non si avevano notizie già da un giorno e i pochi tedeschi rimasti erano tutti asserragliati negli hotel o nelle fattorie.
A lui ne interessava uno in particolare e lo voleva vivo. Il solo ricordo del suo sorriso freddo gli riconsegnava il dolore delle unghie strappate e della carne bruciata.
Voleva il suo torturatore: era sceso dai suoi monti e non se ne sarebbe andato a mani vuote.
Il quarto giro fu quello fortunato.
Mentre si trovava sul retro dell’albergo, udì delle grida provenire dalla porta di servizio. All’apparenza un’anziana signora, riversa a terra, veniva presa a calci e sputi da tre partigiani.
«Ma che fate? Non vi vergognate a pigliarvela con una povera vecchia?»
Il gruppetto sorrise all’unisono e uno di loro sfilò il fazzoletto dal capo della donna: «Tel chì! Altro che pora carampanna!»
Era lui.
Giovanni quasi vacillò quando lo vide in faccia: ricordava ogni terribile istante in cui il tedesco aveva minacciato, tagliato, strappato e bruciato.
Ogni momento della tortura era impresso in maniera indelebile nella sua memoria.
Intanto il più basso dei tre spiegava: «Non ha nemmeno la dignità di morire da uomo, s’è vestito da donna e cercava di scappare da qui!»
Giovanni cambiò espressione e si strinse la sciarpa al collo: «Questo bastardo mi ha torturato!» mostrò quindi le croste rosse e violacee, al posto delle unghie delle mani. Poi fissò il tedesco con occhi di fuoco: «Te lo ricordi che cosa mi hai fatto, vero?» e gli assestò un violento calcio nelle costole.
«Datelo a me, vi prego!»
I tre si guardarono e si lasciarono andare a un solenne gesto di assenso, da cui traspariva solidarietà e cameratismo. Poi il più alto dei tre disse: «Fanne quello che vuoi, tanto noialtri lo avremmo ammazzato a calci e basta. A te, con quel che ti ha fatto, verranno di sicuro idee migliori!»
Dopo aver lasciato l’auto, Giovanni, pistola alla mano, aveva fatto camminare il tedesco per un’intera giornata. All’inizio l’uomo si era lamentato, aveva chiesto scusa, aveva anche tentato di corromperlo per farsi lasciar libero.
Da almeno un’ora appariva rassegnato al suo destino.
«Siamo arrivati!»
Si erano lasciati alle spalle un grande lago di montagna e avevano iniziato a percorrere un sentiero di ciottoli affilati come rasoi, che si arrampicava tra due cime innevate.
Era sera inoltrata e Giovanni doveva sbrigarsi a sistemare le cose, per tornare a un rifugio, prima che facesse notte: estrasse il coltello e lo conficcò a forza nella corda che legava il prigioniero.
«Vai! Come il sentiero scende a valle sei già in Svizzera. Là ti attende il verdetto di un giudice e, forse, la tua seconda possibilità!»
Il tedesco era allibito: «Non volevi vendicarti? Ti ho minacciato, ti ho torturato…»
«Te l’ho detto! Giù per quel sentiero c’è chi ti giudicherà, io sono solo un uomo!»
Giovanni si voltò e riprese a camminare a ritroso, mentre il collarino ecclesiastico gli spuntava da sotto la sciarpa.