
Uno “Stand by me” ambientato nelle campagne italiane. Un racconto di Tina Caramanico in cui il caldo si mescola al mistero.
Era d’estate, quando non fa mai notte e si può uscire a giocare anche dopo cena, fino a tardi.
Io e Giuseppe, subito dopo il tramonto, ci allontanavamo dalle case, per paura che le mamme ci richiamassero; Giuseppe aveva una pila che ci faceva luce sullo stradone sterrato, fino alle rovine della vecchia scuola, appena fuori dal paese. Ci portavano le capre a pascolare e i bambini stavano alla larga, perché si diceva che sotto al noce, davanti alla casa, la notte andavano le streghe. Io e Giuseppe alle streghe non ci credevamo, però un brivido silenzioso sì, ce lo sentivamo pure noi lungo la schiena, a passare là vicino quando ormai era buio e si sentivano solo i grilli e i nostri respiri affannosi.
Quella sera Giuseppe faceva lo spavaldo, con la pila spenta mi aveva lasciato indietro sulla strada, per farmi spavento. Lo sentivo ridere e lo chiamavo: «Giuseppe! Non fare lo scemo, Peppe! Eddài, non fare lo scemo!» Mi tremava la voce. Non sentivo più le risate, né i passi. Poi ricomparve la pila: si avvicinava ballando nel buio, sempre più in fretta. Quando rividi la faccia di Peppe, non rideva. Aveva gli occhi spalancati e faceva fatica a parlare. «C’è qualcuno, dentro» bisbigliò.
«Dentro dove?»
«Dalla finestra. Si vede una luce. Dentro alla scuola.»
Mi prese quella curiosità che ti strizza la pancia e ti fa vedere, vivi, tutti i mostri che ti popolano il cuore. Stavamo zitti, io e Giuseppe, ma lo sapevo che pensava gli stessi pensieri miei. Senza dirci niente, lui davanti e io dietro, ci avvicinammo alla casa, cercando di camminare leggeri e di non fare rumore. La luce c’era davvero, dietro i vetri rotti e polverosi. Giuseppe si girò verso di me e mi fece cenno di stare zitto e di seguirlo dentro la casa. Io feci di no, di no con la testa, ma non feci in tempo a trattenerlo. Chiamarlo sarebbe stato pericoloso, abbandonarlo lì da solo non potevo. Entrammo. Sulla destra una mezza parete, ancora in piedi, ci copriva la vista della stanza da cui veniva la luce.
«Ciao» disse una voce sottile, di bambina.
«Chi sei?» rantolò Giuseppe.
«Sono Angelica. Venivo a scuola qui, tanti anni fa.»
Oltre la parete qualcuno si era mosso tra i calcinacci e si era avvicinato a noi.
«Mia mamma era morta. Perciò volevo bene alla maestra, tanto bene.» Aveva detto le ultime parole ridendo, e continuava a ridere, e il lume, che vedevamo avvicinarsi oltre lo schermo della mezza parete, tremolava e oscillava.
«La maestra mi teneva a casa sua, però non era buona. Quel giorno avevo solo sbagliato a stirarle la camicia. Ma lei urlava e urlava e me ne dava tante, tante, con le mani e con il ferro, infine, sulla testa. Ora staremo qua, nella scuola, sempre insieme, sempre.»
Da dietro la parete sbucò una lanterna e poi il volto della vecchia maestra Lodovici, solcato da rughe e da ombre, comparve. Dalla bocca sdentata uscì di nuovo quella voce sonora, fresca di bambina: «Sempre, sempre insieme» ripeteva, mentre io e Giuseppe eravamo già lontani, di corsa nel buio sullo stradone.
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