Fuoco

Trascino avanti il piede destro, sfregando la calza consumata sulla terra grigia.
Poi il sinistro, nudo e ispessito come uno pneumatico del mio vecchio Uaz.
Ogni passo mi costa una fatica enorme, le ginocchia mi fanno un male cane.
Avanzo lento nel plumbeo nulla che mi circonda. Non credevo che avrei mai sentito la mancanza della mia ombra.
Destro. Sospiro.
Sinistro. Bestemmia.
La mano sinistra stringe il fucile ancora caldo. Mi sono rimasti solo due colpi. Poco fa erano tre, ma quello stronzo voleva sottrarmi la preda e ho dovuto farlo. Cazzo, ho dovuto!
La mano destra regge il topo per la coda. Lo guardo con desiderio: io e mia figlia non mangiamo da cinque giorni. Non vedo l’ora di tornare da lei.
Devo spingermi sempre più lontano perché non ci sono quasi più animali. Quello che ti dicevano sempre è che gli organismi più sono semplici e più hanno probabilità di sopravvivere alle radiazioni. Quello che scopri solo dopo, col mondo è andato a puttane e il cielo che è una palla di cenere, è che sono comunque quei quattro bastardi disperati di Homo sapiens rimasti ad avere l’ultima parola.
Abbiamo mangiato cani, gatti, vipere, blatte. Vomitare per questa merda sembrava il punto più basso, almeno finché per questa merda non abbiamo cominciato a ucciderci.
Non a mangiarci, no: i nostri corpi sono veleno, noi siamo veleno. Siamo stati il veleno del mondo.
Destro. Tiro su col naso.
Sinistro. Una lacrima.
 
Mia figlia ha sette anni. Non ricorda niente del mondo di prima e forse sa già che non avrà un dopo per ricordare questo presente di merda. Ma ha pianto di gioia per quel topo, quel piccolo topo sfortunato a essere sopravvissuto fino a ora, quel piccolo topo benedetto perché ha reso felice mia figlia per un meraviglioso attimo.
L’abbiamo cotto con calma: non ci manca il tempo, non ci manca la legna secca. Ora lo stiamo mangiato seduti uno a fianco all’altra. Il momento più bello da tanto tempo a questa parte.
Ho gli occhi chiusi. Mi torna in mente quando lei era dentro la sua mamma, e la sua mamma era dov’è lei ora, al mio fianco. Guardavamo le stelle, quella sera: io, lei, due fette di pane imburrato col caviale che tenevamo da parte per un’occasione speciale, la bottiglia di vino georgiano, l’entusiasmo di chi ancora pensava al futuro.
 
“Pensi ancora alla mamma?” La voce di mia figlia mi distoglie dai pensieri.
Mi volto verso di lei, alzo una mano e le sfioro la guancia. Poi faccio di sì con la testa.
Il velo di tristezza dei suoi occhi non basta a celare la sua curiosità. “Quella volta che era buio, ma buio bello?”
“Sì, tesoro – provo a sorridere – proprio quella volta.”
“Il buio con le stelle?”
“Il buio con le stelle.”
“Papà?”
“Dimmi, piccola.”
“Vorrei tanto vederle anch’io le stelle.”
Mi sento morire dalla tristezza. Guardo lei, poi il fuoco che si sta spegnendo.
Afferro un rametto non ancora bruciato e sposto prima tre grossi pezzi di brace come a formare un triangolo; poi ne sistemo altri più piccoli, un po’ a memoria, un po’ come viene.
“Allora, tesoro: questa è Deneb.”