Il collare

Un errore che salva una vita in questo racconto di Maria Rosaria Del Ciello, selezionato nel Laboratorio di Minuti Contati.

 
L’autogrill sull’autostrada era il luogo stabilito per l’appuntamento.
Si dovevano vedere lì, sotto l’insegna fluorescente, gialla e blu, che recitava “A cake for a break”.
Alle dieci di sera. L’ora giusta per non incontrare troppa gente, per non dare nell’occhio.
Mario si presentò puntuale, con la valigetta piena di banconote e la paura che le cose non andassero come dovevano.
Gli altri, infatti, ancora non si vedevano. Dovevano restituire il cagnolino della contessa Zeimann, rapito la settimana precedente, ed erano in ritardo.
Faceva freddo, l’aria gelida si condensava in buffe nuvolette di respiro attorno ai volti delle poche persone che passavano da quelle parti.
Cominciarono, ad un tratto, a cadere lievi gocce di pioggia, lente e sparpagliate sulle teste e sulle cose, senza rumore, quasi per caso, come se non volessero farsi notare neanche loro.
La mano di Mario stringeva la valigetta. Era quasi congelata, ma lui non riusciva e non voleva mollare la presa.
C’erano centomila euro lì dentro. Il valore che la contessa aveva acconsentito a pagare pur di riavere la bestiola tra le sue braccia.
Mario era certo che la donna avrebbe sborsato anche di più per quel cane, se solo glielo avessero chiesto, e questo lo faceva incazzare. Sì, lo ammetteva. Invidiava profondamente quell’animale.
Per un momento aveva anche pensato Al diavolo tutto: la contessa, il cagnolino, il lavoro!
La contessa. Una grande snob, raggrinzita dal tempo e dalla cattiveria. Sapeva solo dare ordini e lamentarsi del lavoro della servitù.
Il barboncino, un ammasso di peli, pettinati e profumati tutti i giorni, che aveva la fortuna di non doversi piegare come lui alle imposizioni del datore di lavoro. Aveva cibo e alloggio assicurati: gli bastava scodinzolare un po’, abbaiare in segno di festa e la contessa avrebbe dato la vita per lui.
Se rinasco voglio essere un barboncino, si era detto più volte.
Il lavoro, poi. Ma dove lo avrebbe trovato, a cinquant’anni suonati, un impiego ben retribuito e, tutto sommato, poco faticoso come quello che la contessa gli offriva? Un autista non ha molto da fare, di rado qualche piccola commissione fuori città, ma nel complesso non doveva far altro che aspettare l’ordine, non frequente, di portare la Zeimann da qualche parte. In fondo gli stava bene, anche se era costretto a dire sempre di sì e fare la pecorella.
Ora c’era questa rogna del tutto inaspettata, è vero, ma se la sarebbe cavata. Non conveniva certo fare alzate di testa per poi ritrovarsi in brache di tela.
Cacciò via dalla mente i pensieri audaci e si concentrò sulla situazione.
La pioggia, sempre più fitta, lo costrinse a ripararsi dentro l’autogrill; si sedette a un tavolo vicino la finestra, in modo da controllare l’esterno. Ordinò un bicchiere di chinotto e si accese una sigaretta. Un odore di patatine e carne bruciata impregnava il locale.
Proprio mentre scolava l’ultimo sorso, udì una frenata e scorse, sbirciando dalla vetrata accanto alla quale si era seduto, un’auto di grossa cilindrata fermarsi davanti all’ingresso. Un uomo scese dal posto di guida, aprì un ombrello e, girando attorno all’auto, offrì riparo alla donna che usciva dal lato del passeggero. La donna teneva in mano un borsone e con l’altra si stringeva al braccio dell’uomo. Entrambi fecero ingresso.
Mario ripensò a quando, alcuni giorni prima, aveva portato Fuffy al giardino, lo aveva slegato per farlo correre un po’ e quello era sparito dietro i cespugli. Lo aveva cercato, Dio solo sa quanto, ma non era riuscito a trovarlo.
E quando l’aveva detto alla contessa, quella vecchia arpia l’aveva umiliato, insultato, l’aveva anche minacciato di decurtargli parte della busta paga e addirittura di licenziarlo se il cagnolino non fosse tornato a casa.
Poi, quando i rapitori si erano fatti vivi, al telefono, la contessa era stata categorica. Mario avrebbe dovuto effettuare lo scambio.
E lui, adesso, era immobile sulla sedia, una mano sulla valigetta in bella vista sul tavolo.
L’uomo e la donna si avvicinarono e poggiarono il borsone accanto alla valigetta.
“Fuffy è qui dentro”, fece la donna senza togliere la mano dal trasportino.
Mario sbirciò dentro e vide un ammasso di peli bianchi e grigi.
“Questo è il denaro”, rispose lui allungando la valigetta.
La mano di Mario continuava a essere congelata e stretta, questa volta, sul manico del trasportino.
La donna aprì la valigetta mentre l’uomo lo teneva d’occhio con un’espressione poco rassicurante.
“Tutto okay”, confermò la donna rivolta al compagno. E sparirono in un attimo oltre l’ingresso dell’autogrill. Nella sera piovigginosa.
Mario, ancora stordito, uscì a sua volta e si diresse verso l’auto. Una volta dentro, respirò profondamente e si lasciò andare sul sedile, aspettando di scaricare del tutto l’adrenalina accumulata fino ad allora.
Si accese una sigaretta e aprì lo sportello del trasportino. Fu allora che si accorse dell’errore.
Quello non era il cane della contessa. Gli somigliava molto, tanto, ma non lo aveva aggredito come faceva sempre Fuffy quando lo vedeva. Mario ebbe un attimo di esitazione. Prese la bestiola in braccio e quello si accoccolò sul suo grembo. Era più magro, forse affamato e tanto bisognoso di coccole. No, decisamente non era Fuffy. Chissà, pensò Mario, se la contessa se ne sarebbe accorta. Questo qui, ora sulle sue gambe, invece, aveva più l’aria di un barboncino sperduto e abbandonato. A Mario fece tenerezza e fu quasi contento di quell’equivoco. I rapitori dovevano aver scambiato un barboncino qualunque per il cagnolino della contessa. Chissà che fine aveva fatto quello vero. Forse era stato veramente un errore dei rapitori e Fuffy ora era chissà dove, libero ma sotto la pioggia. Oppure era stato rapito ma, visto il caratterino dell’animale, quelli l’avevano ucciso e poi sostituito con uno simile. Chissà. Ad ogni modo, pensò Mario, aveva avuto la sorte che meritava, bestiaccia antipatica e snob. Come la padrona.
Aprì il cruscotto dell’auto e recuperò il collare. Il regalo della contessa che Mario aveva dimenticato l’ultima volta di mettere a Fuffy. Glielo sistemò. Ecco, ora era perfetto.
La contessa non si sarebbe accorta di nulla.
E Fuffy sarebbe tornato di nuovo a casa.