
È fumo.
Fumo nero, dai lineamenti aggraziati alle caviglie sottili, dalle lunghe dita alle labbra piene. Fumo così denso che puoi stringerlo, impossibile da trovare in natura, e tanto ricco di toni e sfumature. In fondo ai suoi occhi, quando è abbastanza piccolo da poterli fissare con facilità, scorgo braci ardenti, e anche in fondo alla gola, quando apre la bocca. Posso baciarlo senza scottarmi, ma una luce si affaccia dal basso.
Fa male sapere che ciò che ha dentro potrebbe bruciarmi. È assurdo: se il mio amante fosse in carne ed ossa, non potrei comunque esplorarne gli organi, affondare nei suoi occhi… Eppure, mi uccide pensare che tanto, di lui, mi sia inaccessibile.
Mi aggrappo alle sue spalle, avvolta da volute del suo fumo. Lui mi affonda dentro.
Batteva i confini, interessato, per indagare la mia comunità. Eravamo, dopotutto, nuovi arrivati nel territorio dei suoi, da conoscere, comprendere – scacciare, se necessario.
Pensò di avermi incontrata per caso; non era così. Dal nostro minuto insediamento, avevamo scorto le teste dei giganti di fumo in lontananza.
Non avevamo la forza di spostarci di nuovo, né le armi per gettarci in battaglia. Eravamo esausti, e bisognosi di una casa.
Così, io percorrevo il limitare della comunità come grazioso, arrendevole esempio di umanità, per mostrarci pacifici, e indifesi. La nostra debolezza era ormai la nostra unica arma.
Mio padre piangeva, quando partivo. Io no: aspettavo di non essere vista per farlo.
Mi inarco sul suo corpo. È una reazione spontanea alle sue spinte, alla sua stretta sui miei fianchi, in parte. In parte, sono io a prolungare il movimento.
Non parlammo subito, io e il gigante. Trovammo a fatica gesti, e segni tracciati nel terreno, per trasmettere l’indispensabile. Foresta poteva significare “Sono di oltre la foresta,” o “Amo la foresta”: solo in un secondo momento scoprii che l’ifrit danzava tra i due significati.
Imparai ad apprezzare la sua ambivalenza, la sua curiosità maniacale; la gentilezza con cui esplorava le mie regole e sensibilità.
Il suo linguaggio mi avvolse, parola su parola, forma su forma. Era fatto di crepitii e sussurri, di attese e scoppi, e di gesti inumani.
Piansi sempre più spesso, ma nel ritorno verso casa: schiacciavo le fiamme sul fondo del mio petto, negavo la felice tensione del mio stomaco.
Venne la prima pioggia.
Il villaggio era entusiasta; io, piena d’ansia. Come reagiva il mio impossibile amico all’acqua? Soffriva?
Raggiunsi i confini del suo territorio sotto la tempesta. L’acqua mi faceva rabbrividire; il terrore mi gelava dentro. Del mio gigante, non c’era traccia.
Fu lui a trovarmi, e a scaldarmi in un abbraccio.
Era alto poco più di tre metri, a quel punto, ed evaporava ancora. Io avevo i piedi gelati, il petto che bruciava, e non ero mai stata così confusa.
Lo baciai. Affondammo nella terra bagnata.
Ora, si tende; perde e recupera consistenza. I suoi occhi sono soli sotterranei. Ruggisce. Si stringe a me, come alla vita.
Rispondo all’abbraccio, gli carezzo la nuca.
Non potremo restare a lungo: tra poco, il sole squarcerà le nubi, e il mio ifrit tornerà un gigante di fumo, libero, avvolto intorno al suo cuore di fiamme.
Lascio scorrere le lacrime: non possono intaccare questo momento. Anzi, è proprio la sua finitezza a renderlo prezioso.
In fondo, non può piovere per sempre.