
La signora nella 500 inizia a sterzare verso il marciapiede.
Le corro dietro e scuoto le braccia. «Accussì lo prende, signò!»
Mi vede dal finestrino e si ferma. Mette la retromarcia.
«Piano, signò.»
Viene indietro e rifà la manovra per piazzarsi nel posto tra il marciapiede e uno libero. Scende.
«Signò, nun è che ve putessere mettere megl, altrimenti nun me trase n’ata machine.»
Lei mi guarda stizzita. «Son di fretta, e non ho spicci.»
«Nun ve preoccupate signò, nun è chisto, nun è pe’ gli spicce…» le indico la ruota che calpesta la striscia bianca. «State mis malamente.»
«Non ho tempo, mi scusi.» Mi passa accanto e sfila via senza dire altro.
Almeno non si è rovinata la ruota. Mi giro verso Gennarino seduto sulle sedie all’ingresso del parcheggio e gli sorrido. Abbassa lo sguardo.
È la prima volta che lo porto a vedermi lavorare, d’altronde. Lo raggiungo e gli accarezzo i capelli scuri. «Hai vist comme fatica papà, Gennarì?»
«L’aggia vist.» Dice senza guardarmi.
«Che’rè ch’ella faccia?»
Esita. «Mo ci devi rigá a machine alla signor?»
«A chi?»
«A signora che n’ha pagat.»
«C’aggià nguaiá a machine?»
Gennaro alza lo sguardo. «Ciruzzo a scole ha detto che facite accussì. Ca site abusivi e prepotent.»
Ah, ecco cos’era. Mi siedo. «O ver? Accussì ha itt?»
Gennaro annuisce.
«È ver. Qualcune fa acchussì.» Gli pizzico appena la guancia. «Ma papà, che è o’megl do rione, secondo te, facesse na cos del genere?»
Gennaro sembra confuso. Poi capisce e mi sorride. «E che faie se nun te paghene?»
«E che facc? Ce dico buona jurnata.»
Lui ride.
«Ma se verono ch’a faccio bono o lavoro mije, me dann qualcose. È accussì che a gente ti vo bbene, Gennarì, cu onestà e cordialità.»
Gennaro mi abbraccia alla vita. «Scusa papà.»
«Ma che dic?»
Non risponde, ma ha gli occhi lucidi. È un bravo bambino. «Damme nu base, jà.»
Mi chino e mi dà un bacetto sulla guancia.
Una mercedes classe C svolta nel parcheggio. È tirata a lucido e con i vetri laterali oscurati.
«Gennarì, guard chist che bellu machinone!»
«Ua!»
Mi alzo. Meglio che lo faccio parcheggiare nel posto tra la panda e la mito, che è bello largo. Gli faccio cenno di avvicinarsi. Quello fa per svoltare dall’altra parte ma si accorge che è controsenso e riviene verso di me.
Gli indico il posto. «Venite cca!»
Al volante c’è un uomo in giacca e cravatta con un paio di occhiali scuri. Solleva appena una mano e mi fa di no col dito.
Si crede che lo costringo a pagare se parcheggia lì.
Gira all’improvviso e la fiancata posteriore mi sfiora le ginocchia. Mi getto all’indietro e intruppo su una macchina parcheggiata. Per poco non mi prendeva!
La mercedes si inserisce nel posto lasciato tra una Rover e la 500 della signora. È troppo stretto.
Corro verso di lui. «Guagliò, viene cca, che state megl!»
Quello spegne il motore e apre appena la portiera. Sta dicendo qualcosa ma sono troppo lontano per capire. Gli faccio cenno con la mano. «Chillo posto è troppo stritt!»
Tira fuori una gamba e cerca di uscire ma non ce la fa. «Porca puttana!»
Mi affianco al faro posteriore. «Ce l’aggia ditt che chillu post nun va buone. Faciteve arret.»
«Avete rotto il cazzo!» Di colpo l’uomo sbatte la portiera sull’altra auto indentandone la carrozzeria.
Esce fuori. È alto e con la faccia rossa di rabbia.
Indietreggio. Gennaro per fortuna è rimasto lontano. Alzo le mani davanti al petto, provo a dire qualcosa ma le parole mi si bloccano in gola.
Quello si avvicina stringendo i pugni. «Uno dei tuoi colleghi, oggi, mi ha rigato la cazzo di macchina, lo stronzo!» Ha un accento del nord. «Ora però basta con questa camorra del cazzo!»
Mi è davanti ormai.
«S- scusate, io vulevo sulo—
Alza la mano dietro la spalla e il pugno mi arriva dritto alla testa. Cerco di proteggermi con le braccia, ma un dolore sordo mi esplode sull’orecchio e la nuca. Altri colpi mi intorpidiscono le braccia, il naso, le guance e la bocca.
Tutto si fa sbiadito.
Un bambino urla in lontananza e la voce sopra di me, ora, è più calma. Sprezzante. «Abusivi di merda.»