
Alberto strinse il volante, lo stomaco accartocciato lo minacciava con le sue fitte.
Deglutì. E se lo avessero fermato?
Fissò la mascherina sul cruscotto. Non sarebbe bastata.
Il cartello con la scritta “Rebbiano” sbarrata si avvicinò e quello di Millongo prese il suo posto.
L’urlo delle sirene gli fece ingoiare il cuore e si unì all’eco dei battiti cardiaci. L’ambulanza comparve sull’altra corsia e sfrecciò al suo fianco.
Espirò. Grazie al cielo.
Fuorilegge per pochi chilometri tra due maledetti comuni di nemmeno ventimila anime.
Regioni diverse. Colori diversi.
Svoltò a sinistra e parcheggiò tra un Mercedes e una panda. L’ospedale gettava un’ombra sul parcheggio, come a volerlo rassicurare e nascondere.
Tra le macchine di medici e infermieri, il senso di nostalgia e normalità premeva per scacciare le sue preoccupazioni.
Flavia lo raggiunse con gli occhi smeraldo intrappolati tra il cappuccio della felpa, le occhiaie e la mascherina.
Aprì la portiera e lo fissò con gli occhi imperlati di gioia.
Alberto la abbracciò. «Tutto ok oggi?»
«Solito delirio tra terapia intensiva e il resto.» Flavia abbassò lo sguardo. «Senti, non devi per forza.»
«Ne abbiamo già parlato, i mezzi sono uno schifo.»
Flavia gli sorrise.
Per lei, non c’erano colori diversi.