Insalata verde

Finalista nella Sara Bilotti Edition, 145° All Time, un racconto di Davide Di Tullio.

 
«Un’insalata verde e un’acqua gasata.»
La cameriera scarabocchia un appunto sul taccuino, mi volta le spalle e alza i tacchi. La gonna le si solleva e mostra una calza smagliata.
Questo posto è davvero uno schifo. Certo, se il capo pagasse meglio le trasferte, non dovrei rifocillarmi in questi buchi di merda. Appena torno in sede mi sente, il figlio di puttana.
Mi poggio sullo schienale. Di fianco al mio tavolo una grassona sghignazza. Racconta qualcosa al negro seduto di fronte a lei. Quello tira indietro la testa e gorgheggia una risata che si ficca nel cervello come la punta di un trapano.
La cicciona affonda la mano paffuta in un piattino, afferra con il pollice e l’indice una patatina e la intinge nella maionese. La porta alla bocca e la fagocita. Si lecca le dita con la lingua da vacca e si pulisce la mano sulla tovaglia.
Il negro scuote la chioma crespa e scaglie di forfora impolverano le spalline della sua giacchetta scura da 15 euro e novanta. Patetico.
Ma dove cazzo è la mia insalata? La sala è deserta e questa luce al neon mi fa diventare matto.
Perlomeno le posate sono pulite. Afferro il coltello, lo rigiro tra le mani. Mi specchio nella lama. Porca troia, e questo quando è uscito? Appoggio l’indice sulla punta del naso. Un bozzo pruriginoso. Se qualcuno dei colleghi si azzarda a prendermi per il culo, giuro che lo ammazzo!
Ah! Ecco la cameriera… Dio, ancora al tavolo della grassona. Galletto allo spiedo con contorno di insalata. Non è certo a dieta, la scrofa. Quella è la mia insalata!
Deve essere un cazzo di scherzo. Sì, sì, lo è. Non sono mica stupido. Quei due sono solo commedianti e io la vittima di una messinscena. Qui c’è lo zampino di quel terrone di Lopane. Che possa crepare!
«Cameriera! Quanto ci vuole per l’insalata? Alle 13 ho un treno!»
«Arriva, arriva!» Fa un gesto con la mano, come per mandarmi a quel paese.
Mi allento il nodo della cravatta. Ma ce l’avranno l’aria condizionata qui? Sbatto i pugni sul tavolo. Le posate saltano, il bicchiere casca in terra e si frantuma in mille pezzi.
La cicciona smette di ridere, il negro si volta verso di me.
«Hai bisogno di aiuto, fratello?» Mi domanda, con occhi gialli da malarico e il viso tirato come certe mummie che ho visto in TV.
«Non sono tuo fratello, cazzo! E finitela di starnazzare come due colombe in calore.»
La cicciona sbatacchia gli occhi e si tira indietro. Arriccia la bocca vermiglia e dà un paio di buffetti sulla mano del negro. Cristo, se sono disgustosi!
«Hei, amico. Era solo per essere gentili.»
«Vuoi essere gentile? Allora chiudi quel cesso di bocca, mostro!» Afferro il coltello e mi sollevo di scatto. Un taglio netto e gli recido la carotide. La cicciona urla. Un fiotto caldo schizza sui pantaloni. La mummia si afferra la gola e mugugna. Ne butta di sangue, il bastardo! Si solleva, barcolla, fa un mezzo giro su se stesso e stramazza. Una chiazza rossa si allarga sul pavimento. L’odore del sangue si mischia a quello della candeggina.
La cicciona ammutolisce. Stringe gli occhi bovini e comincia a piangere. Si passa la mano tremante sulla fronte unta e il trucco le si disfa. Sembra una bambola di ceramica. Dio, quanto odio quel grugnito. Affondo un fendente tra le grosse tette cadenti e attendo che il suo rantolo si spenga. Si accascia sul tavolo. I capelli corvini le finiscono nella salsa rosa. Cazzo, se è un bel casino.
La sala è vuota e il neon sfarfalla. Sembra il fottuto set di un film horror, e la mia insalata non si vede ancora.
Scavalco il negro e mi sporgo oltre la cicciona.
È quella la mia insalata! Agguanto la ciotola, e la poggio sul tavolo. Indivia e rucola, la mia preferita. Afferro la forchetta, e porto alla bocca un grosso ciuffo succoso. Dio, se ci voleva!
Chissà se il capo si accollerà le spese della tintoria, a sto giro.