La carezza dell’amore

Finalista nella Scilla Bonfiglioli Edition, 147° All Time, un racconto di Gabriele Dolzadelli.

 
Ero incantata dal suo modo di dipingere. Manuel dava intensità ai colori semplicemente accarezzandoli col pennello. Era uno dei motivi per cui l’amavo, nonostante tutto. Lo amavo nonostante le botte, nonostante l’alcol, nonostante le sue parole taglienti. Lo amavo perché sapevo cosa significava crescere senza padre, in mezzo alla strada, con una madre che preferisce uscire a procurarsi una dose che preoccuparsi di te con la febbre.
Beatrice non mi capiva. Si fossilizzava sul fatto che dovevo lasciarlo. Per quanto non sopportassi l’atteggiamento della mia amica, non riuscivo a biasimarla. Anche lei aveva avuto un passato difficile. Solo che Bea aveva costruito attorno a sé una corazza inviolabile che la teneva lontano da tutti, soprattutto dagli uomini. Lei diceva che era quella corazza a farla andare avanti e a non farle mollare gli ormeggi. Io non ci credevo più di tanto, anzi. Mi sembrava che quel guscio le pesasse ogni giorno di più.
Ne parlai con la mia guru: Salang. In coreano significa amore e quel nome le stava addosso come un abito di sartoria. Un giorno mi insegnò una tecnica che si chiamava la carezza dell’amore. Può sembrare banale, perché tutte le carezze sono amorevoli, ma la sua era qualcosa di speciale. Non donava solo amore, toglieva anche il dolore. Ci misi tre mesi per impararla e ci tenevo con tutto il cuore. Fosse stato per me, avrei accarezzato l’intero mondo, togliendo da ogni anima il mostro che vi albergava. Volevo farlo soprattutto per Manuel.
Quando tornai a casa era sdraiato sul divano. Sul tavolino c’erano cinque bottiglie di birra vuote. No, erano sei. Una era sul tappeto. La tela era finita, appoggiata al muro. Al suo posto, sul treppiedi, ne aveva messa una ancora immacolata. Mi avvicinai a lui e cercai di non svegliarlo. Quando si svegliava dopo una bevuta era sempre aggressivo. Gli accarezzai la guancia, premendo leggermente col pollice sullo zigomo. I polpastrelli leggeri raggiunsero la tempia e con la punta dell’indice, in senso orario, arrivai all’angolo delle labbra. Era bellissimo. Lo fissai per qualche minuto, prima di lasciarlo solo e raggiungere Bea.
Le raccontai della tecnica che avevo acquisito e di come l’avevo applicata a Manuel. Lei, come al suo solito non mi ascoltò. Mi disse che era senza speranze e di lasciarlo. Povera Bea, quanto mi dispiaceva che fosse così dura con la vita. Fu scettica perfino in merito alla carezza dell’amore ma la convinsi a provare, a chiudere gli occhi e a lasciarsi coccolare dalla mia mano sul viso. Le venne da ridere e non ci credette nemmeno dopo, ma almeno le avevo strappato un attimo di gioia.
Il giorno dopo tornai da Manuel. Era davanti alla tela, fissandola con gli occhi sgranati.
«Non ci riesco più» mi disse. Inizialmente non capii, perché era restio a dare spiegazioni. «Non riesco a dipingere» aggiunse poi disperato. Gli sfiorai una spalla, col timore mi si rivoltasse. Non lo fece, era innocuo. Era soltanto infelice, con gli occhi colmi di panico e disorientati, privi della fiamma che vi ardeva un tempo.
Me ne dispiacque, soprattutto perché non riuscii a essergli di aiuto. Lo lasciai alla sua contemplazione e per diversi giorni la situazione non cambiò. Chiamai Bea per avere un consiglio su come fare, ma non rispondeva. Mi recai sotto casa sua e trovai una folla radunata sul marciapiede. Mi feci largo e vidi il corpo di una donna steso a terra.
«Si è buttata dal tetto, poveretta» disse una signora. Riconobbi il viso di Bea, in mezzo alla pozza di sangue. Corsi via, con una mano sulla bocca a trattenere i singhiozzi. Mi rifugiai in un vicolo e gli spasmi mi indebolirono. Dovetti inginocchiarmi a terra. Ero stata io a farle questo? A toglierle la corazza esponendola alla tempesta? Ero stata io a togliere a Manuel quel dolore che gli permetteva di sfogarsi sulla tela? Cosa avevo fatto? Ero un mostro!
Mi guardai la mano, non riuscendo a non gemere. L’avvicinai tremante al mio viso e chiusi gli occhi, concedendomi una sola carezza.
 
«Adesso cosa provi?» mi chiese Salang.
«Nulla» le risposi. «Non posso soffrire per il dolore altrui, se non so cosa sia il dolore.»
Salang mi sorrise. Un sorriso materno.
«Ora, almeno, sei libera» mi disse sfiorandomi con delicatezza il volto.