
Accartoccio l’ennesimo foglio e lancio quella specie di pallotta verso il cestino attorno a cui c’è un cimitero di altre pallotte.
Sono troppe e inizio a sentirmi colpevole: sto sprecando carta. Do una manata al blocco da disegno.
«’Fanculo anche agli eco-qualcosa!»
Di solito quando sono nervosa lavorare alla vecchia maniera — con matite vere, carta, gomma e sfumino — mi rilassa. L’odore di legno e grafite ha sempre placato i miei malumori, la giusta consistenza della gomma tra le dita ha sempre contenuto i cattivi pensieri.
Questa sera invece la magia non accade. Anzi, ho l’impressione che l’umore sia addirittura peggiorato.
Ho un personaggio nella testa ma non riesco a metterlo sulla carta. Lo vedo: bello e sicuro di sé come solo un manga può esserlo; carismatico, scanzonato. Ma appena provo a riportarne i tratti sulla carta si trasforma. Lo sguardo si fa pavido, la posa posticcia, le spalle si curvano. Addirittura le mani non riesco a fargliele giuste. Le mani! Che sono la prima cosa che ho imparato a disegnare! Dovrebbe muoversi con noncuranza. Invece quelle dita mi implorano di lasciarlo andare, di non trascinarlo fuori dalla mia immaginazione.
Ho un’idea: provo a dotarlo di un fumetto, chissà che non mi dica il motivo per cui non vuole finire sulla carta.
Disegno un ovale, in alto nella tavola. Forse è troppo in alto, troppo lontano dal personaggio, così aggiungo quel tratto bianco che dovrebbe collegare la nuvoletta al soggetto. Ma anche questa mi esce sbagliata: sembra una lunga strada ondulata che da dietro al personaggio arriva fino lassù, dove c’è l’ovale.
Prendo la matita e sto per scrivere qualcosa quando BADABANG-BUM-CRASH!
Sobbalzo al rumore forte proveniente dalla cucina, come se fosse caduta una pila di piatti. Mi è anche sfuggita la matita di mano, ma la recupererò dopo: devo prima capire cosa è successo.
È davvero una pila di piatti, quelli che avevo lasciato nell’acquaio all’urlo di “li laverò dopo”. Urlo che ho ripetuto per tre giorni di seguito. Risultato: due di quei piatti non li dovrò lavare mai più e devo anche capire se i cocci del bicchiere vanno nel vetro o nell’indifferenziato.
Raccatto briciole taglienti e unte per mezza cucina e con un nuovo senso di inadeguatezza torno al blocco.
Che strano.
Quando mi è caduta la matita ha disegnato dei piccoli tratti nell’ovale del fumetto, che adesso assomiglia a una testa con un lunghissimo collo.
«Uno youkai…» mormoro, sorpresa. Ne avevo sentito parlare una volta sola, non so neppure come mi sia uscita dalle labbra la parola corretta.
Quando disegno c’è sempre il momento in cui scatta qualcosa nella tavola alla quale sto lavorando. Lo sento quasi con le orecchie, quel “click”, e mi riverbera dentro, risuona nell’infinito, annuncia al mondo che è nato Un Disegno. È il momento in cui ogni elemento della scena si incastra perfettamente nel mondo, quando non ha un solo tratto fuori posto e io so, SO che è perfetto.
Ho sentito quel click, adesso. Il mio personaggio è terrorizzato dallo youkai che in effetti ha un’aria infida. Oh, cielo, povero personaggio. In quali pasticci l’ho cacciato. Vorrei salvarlo, ma non so decidermi a prendere la gomma, quella scena è impeccabile: il modo in cui la testa fluttua in alto e sorride appena, beffarda, come se avesse in mente qualcosa di terribile e irriferibile. E l’espressione terrorizzata e devastata del personaggio, che vorrebbe scappare ma non può. Con quelle dita che…
Hum. Strano.
Avrei giurato che fino a un momento fa mi implorassero di non metterlo lì, sulla carta. Invece viste da questa angolazione sembrano indicare qualcosa, qualcosa che sta davanti a lui. E anche quello sguardo, non sta fissando lo youkai.
Guarda avanti.
Guarda… me?
Mi volto di scatto.
Vedo solo la bocca, spalancata, che si chiude sulla mia faccia, strappandomi il volto dalle ossa.
E per un istante riesco a sentire la voce del mio personaggio: «鬼に気をつけろ!»
Oni ni kiwotsukero!
Attenta all’oni.