La neve rossa di Culloden

Era freddo. Tanto da congelare il sangue che ricopriva il prato. Scricchiolava come brina vermiglia sotto gli stivali dei soldati. Il clangore del metallo era talmente assordante da nascondere il suono delle cornamuse e il passare del tempo era scandito dai colpi: poco e meno di un minuto i fucili, poco di più i cannoni. E sembravano non aver mai smesso.
Connor era più o meno al centro della distesa erbosa, era arrivato con la prima carica e tutto quello che aveva fatto, da quel momento in poi, era stato infilzare, affondare e schivare: quest’ultima cosa non gli era riuscita sempre. Si prese un momento, in cui sembrava che intorno a lui si fosse fatto il vuoto. La polvere delle esplosioni e la nebbia non gli permettevano di vedere oltre la punta della propria spada. Scavalcò un paio di corpi, Freser, almeno sembravano tartan Freser i drappeggi che ne ricoprivano i corpi smembrati.
La battaglia infuriava da ore, ogni fibra del suo corpo era in tensione, gli avrebbe fatto male, se l’adrenalina non fosse stata così tanta. Piantò la spada sul terreno smosso e vi si appoggiò sopra con entrambe le mani per riprendere fiato. Dietro di lui un grido che aveva poco di umano lo costrinse a girarsi. Ancora uno. Un McTavish, dal ventre aperto ribollivano gli intestini squarciati, con un odore nauseabondo. «Dove siete!» Gridò. Era più un rantolio che un grido vero e proprio, il ruggito di un orso stremato. In ogni direzione solo corpi morti e solo scozzesi. Eppure la nebbia avrebbe dovuto giocare a loro favore. Eppure non dovrebbe essere difficile vedere una giubba rossa spuntare dalla bruma.
Poco lontano, non avrebbe saputo dire quanto, una sagoma color porpora. Afferrò l’arma con entrambe le mani e gli si scagliò contro, il motto del proprio clan gli raschiò la gola.
A meno di un paio di passi si fermò, la sagoma aveva assunto la forma esile di un ragazzino. Era in ginocchio, le mani e il petto pieni di sangue. Scivolò e si accasciò sul corpo di un altro soldato.
Connor sollevò la spada ma non riuscì a sferrare il colpo. Con la punta della lama aprì la giacca del nemico. Non era una ferita mortale, almeno non lo sembrava. Fissò quegli occhi pieni di paura qualche momento, poi si voltò.
Cadde un istante più tardi, la punta di una baionetta brillava vicino al suo ombelico.
 
Aveva iniziato a nevicare. Cadeva piano, si appoggiava con grazia sui corpi morti, accarezzava i moribondi. Qualche lamento, pochi per la verità. E il suono strascicato delle baionette che regalavano il colpo di grazia.
Connor riuscì a voltarsi su un fianco, non sarebbe morto con la faccia nella terra, né col culo esposto alla feccia inglese.
Lo scricchiolio dei passi sull’erba ghiacciata era vicino, sentì solo una forte pressione sulla spalla e si ritrovò supino, la bocca piena di sangue e rammarico.
La giubba rossa si guardò intorno, si inginocchiò verso di lui e lo afferrò per il bavero della camicia, rimettendolo nella posizione in cui lo aveva trovato. «Qui sono tutti morti!» Gridò, lo sguardo verso la parte del fronte inglese.
«Perché?» Riuscì a sussurrare l’highlander.
«Aspetta la notte per andartene.»
«Cosa ho fatto per meritarmi la tua compassione?»
La giubba rossa aprì la casacca, la ferita sul petto era poco evidente, ma i suoi occhi erano gli stessi di poche ore prima.
«È qualcosa che non hai fatto: grazie.»