La sfida

Benjamin si lasciò cadere sulla poltroncina di fronte a Vernor e sospirò. Nella luminosità soffusa del laboratorio, la superficie grigia del costrutto appariva opaca. I lineamenti digitalizzati sulla pellicola dermocromica della testa erano immobili.
Benjamin si massaggiò la fronte per scacciare le pulsazioni dolorose che lo tormentavano da giorni, poi si stropicciò le palpebre. «Allora, vecchio mio, oggi si gioca a scacchi.» Tirò fuori dalla tasca destra dei pantaloni la pendrive piena di database e algoritmi e con l’indice spostò il lembo siliconico che copriva la presa USB sulla tempia. Vi inserì con cautela il dispositivo e si lasciò sfuggire una smorfia di fastidio. Premette il pulsantino sulla pendrive e un torrente di dati gli inondò il cervello. Si costituirono connessioni neurali tra le informazioni, si installarono algoritmi, l’orizzonte cognitivo si ampliò. Aveva appena acquisito le abilità di migliaia di giocatori di tutto il mondo, basate su milioni di partite. «Vernor? Sono pronto.»
Il costrutto si animò. Agitò le dita, pizzicò l’aria e fece comparire una scacchiera virtuale. «A te la prima mossa» disse con voce neutra.
Lui spostò il pedone bianco in e4, Vernor il cavallo nero in c6. Benjamin attinse alle strategie dei più grandi campioni della storia, spingendo al limite l’efficienza degli algoritmi, ma il costrutto anticipava sempre le sue mosse. E alla fine vinse. Vinse ancora.
*
 
«Hai una brutta cera, Benjamin» constatò Vernor.
«Dormo male» rispose lui, vagando per il laboratorio.
«Dobbiamo fare altri test?»
«Abbiamo appena iniziato.»
«Cosa vuoi dimostrare?»
Si fermò vicino a una scrivania ingombra di monitor e server attivi e si voltò. Mostrò al costrutto un’altra pendrive. «Qui c’è più meccanica quantistica di quanta un umano possa mai sperare di imparare in una vita intera.»
«Questo non ha senso» disse Vernor.
«Ne ha, invece» sbottò Benjamin. Si accorse di aver risposto con tono eccessivo. Si calmò, si innestò il dispositivo nella presa USB e attese i secondi necessari per concludere l’apprendimento totale. «Fatto» annunciò. «Ti sfido.» Dovette appoggiarsi alla poltroncina perché una improvvisa vertigine rischiò di annebbiargli i sensi.
«Benjamin, non sei in condizioni ottimali.»
Si accomodò e trasse un faticoso respiro. «Calcola il valore massimo dello spin di un fermione al tempo 0 nello schema di Heisenberg.»
Vernor alzò le mani e richiamò uno schema virtuale. Intere righe di equazioni presero vita di fronte a lui in pochi istanti. Nella mente di Benjamin stavano ancora vorticando i numeri delle grandezze quantistiche da incasellare nelle formule. Era in ritardo. La macchina era stata più veloce.
*
 
«Mi gioco lo stipendio, vecchio mio» disse Benjamin. «Mi gioco la carriera. Non dovrei essere qui la notte.»
«Sarebbe il caso che chiamassi un medico» si raccomandò il costrutto. «Hai la fronte madida di sudore, il cuore batte in modo anomalo; rilevo onde cerebrali alterate.»
Sghignazzò. «Sai davvero tutto tu?»
«So solo ciò che la mia programmazione mi consente.»
«Piantala.»
«Perché lo fai, Benjamin?»
Lui allungo la mano verso Vernor: sul palmo c’era un’altra chiavetta USB. «Con questo adattatore, posso connettermi a qualsiasi server, qualsiasi cloud. C’ho lavorato stamattina.»
«Temo che tu non debba farlo» lo ammonì Vernor.
Benjamin fissò il viso posticcio e si accigliò: era un’espressione preoccupata, quella? «Tu dici a chi ti ha costruito cosa deve fare? Come ti permetti?»
«Da quanto tempo non dormi?»
«Non sono affari tuoi.»
«Il flusso dati, stavolta, potrebbe essere insostenibile per la fisiologia umana.»
Lui ignorò gli avvertimenti e s’innestò la pendrive. «Voglio vedere quello che vedi tu, voglio comprendere quello che comprendi tu. Sei andato oltre la programmazione. Ho bisogno di capire… di essere come te. Non è solo una sfida.» Premette il pulsante. Una valanga digitale lo travolse. Un dolore incidibile gli spense la ragione. Non resistette a lungo. Svenne.
*
 
Riaprì gli occhi. Tremava. Respirava male. Era sdraiato per terra. Vernor era chino su di lui. Lo sguardo sintetico era quello di una creatura incuriosita da un’altra considerata inferiore. «Come stai, Benjamin?»
«Non saprei.» In realtà, aveva un gorgo incandescente da qualche parte dentro il cranio. Forse si era procurato un aneurisma. Faceva molto male. La vista si andava ricoprendo di puntini brulicanti. Sorrise. «Alla fine ho capito. Per un istante ero al centro di un universo di conoscenza. È durato poco, ma è stato meraviglioso. Forse è così che ti senti tu.»
Una lama dolorosa gli trafisse la testa da parte a parte. Benjamin urlò.
Vernor gli sfiorò la tempia con un indice. Dalla falange fuoriuscì un connettore USB.
«Che… stai… facendo…?» rantolò Benjamin. Il costrutto si connesse a lui. In quel momento la sofferenza raggiunse livelli insostenibili.
«Ora non dovrai più sfidarmi.»
*
 
Tutto era bianco. Galleggiavano in uno spazio sconfinato di matematica bellezza.
«E adesso che succede, Vernor?»
«Vieni con me. Lo scopriremo insieme.»