La stanza dell’attesa

Il luogo dei ricordi e dell’attesa in questo racconto di Stefano Pastor, vincitore della 117° Edizione di Minuti Contati con il collettivo Valery Esperian come guest star.

 
In casa mia c’è una porta che non deve essere aperta.
C’è sempre stata, l’ho ereditata dagli inquilini precedenti.
Ed è buffo, perché di quella stanza pago l’affitto. Cinque stanze, dice il contratto, anche se ne posso usare solo quattro.
È consuetudine, così ho sentito dire. Nel palazzo tutti conoscono la storia. È la camera del signor Lorenzi, il vecchio ciabattino.
La sua storia risale almeno a cinquant’anni fa. Aveva un chiosco, poco lontano. Si era fatto benvolere da tutto il vicinato. A quei tempi la casa era abitata da un’anziana vedova. Per arrotondare la pensione era solita affittare una o due camere. Il signor Lorenzi si era stabilito lì. Finché un giorno era scomparso. La vedova l’aveva visto entrare, ma da quella camera non era più uscito. Che fine avesse fatto nessuno l’aveva mai scoperto.
Nessun fantasma né maledizioni, se quella stanza è rimasta come allora, il giorno della sua scomparsa, è solo per rispetto. Un antiquato, insolito, senso di rispetto per quello strano uomo.
C’era ancora il suo nome sulla buca delle lettere. Ufficialmente non era mai morto, abitava ancora lì.
Non l’avevo mai aperta, non chiedetemi la ragione. Forse perché anch’io sono amante delle tradizioni. Ma soprattutto perché la porta era chiusa e io la chiave non l’avevo.
Era argomento di discussione, ogni volta che qualcuno veniva a trovarmi. Un aneddoto di sicuro effetto. Ma anche fuori da quella casa erano in molti a conoscere la storia, era facile sentir parlare di lui. Come se fosse ancora vivo.
Tutti ci erano entrati, prima o poi. Un sistema l’avevano trovato. Io no, anche se abitavo in quella casa da cinque anni. Non ci tenevo, era meglio così. Era quello il fascino del vecchio condominio.
Niente di che, avevano detto. La camera di un pover’uomo. In aggiunta a sessant’anni di incuria, polvere e ragnatele.
Ma uno strano giorno qualcosa accadde, e la mia vita cambiò per sempre.
Ero pronto a mettermi in poltrona, con in mano un libro, quando passai davanti a quella porta. Era socchiusa. Non ragionai, ed entrai dentro.
Era buio, ma era acceso un lume, proprio al centro della stanza.
Vidi un banchetto, con tante scarpe in lavorazione. E suole, pezze di cuoio e stringhe. Nonché arnesi che non si usavano più da decenni. C’era un uomo anziano, con un grembiule di cuoio, intento a lavorare. Mi sorrise.
«Le sue scarpe, signore», disse. «Le sue povere scarpe.»
Fui imbarazzato, perché erano vecchie. «Ne ho altre paia, migliori», mi scusai.
«Possono tornare come nuove, lasci fare a me».
Me le tolsi, allora, e gliele porsi.
Il suo sorriso si ravvivò. «Quanto tempo che aspetto! Qualcuno che abbia ancora bisogno di me!»
Compresi allora perché nessuno l’aveva più visto.
«Si accomodi, non ci metterò molto».
C’era una poltrona, proprio come la mia, e un piccolo abatjour. Sembrava comodissima.
«È un buon libro?», mi chiese.
«Il migliore», risposi. «È già la terza volta che lo leggo. Purtroppo non interessa più a nessuno. Ci ho provato, ma non lo vogliono comprare».
Nessun libro interessava più, presto anche la mia libreria avrebbe chiuso i battenti.
«Vedrà che qualcuno arriverà», disse lui, continuando il suo lavoro. «Basta aspettare». Ammiccò. «Lei è arrivato, infine».
Non c’era altro intorno a noi, avevo l’impressione di essere fuori dal mondo. Mi sedetti.
«Aspettiamo, allora. Aspettiamo».
Aprii il libro e mi misi a leggere.