
La vita, questo meraviglioso contenitore di amore. Vincitore della Live di Monterotondo con Francesco Nucera come guest star, un racconto di Monica Patrizi.
Ho sempre pensato che l’amore è quella parte di corda a cui appendiamo i panni ad asciugare. Non importa quanti panni hai steso, quante mollette cadranno nel cortile, quante volte cambierai marca di detersivo nella tua vita. Ciò che conta è la cura che metti affinché le corde dello stendino che hai a disposizione, siano sempre sufficientemente tese e salde per reggere il peso del tuo bucato.
Simone quella mattina mi venne incontro lungo il corridoio della piccola camera mortuaria, appoggiato con entrambe le mani al deambulatore grigio metallizzato, fissandomi con l’unico occhio, dall’iride azzurro, con il quale riusciva a vedere e a mettere a fuoco bene. L’altro occhio, che rimbalzava come una palla senza il controllo dei suoi muscoli volontari, era umido di lacrime, a stento trattenute.
Aveva la barba lunga; i capelli, corti e sottili, spiaccicati dalla parte dove era solito dormire. I piedi, nascosti dalle scarpe ortopediche con lo strappo, sembravano ad ogni passo sempre sul punto di staccarsi dalle caviglie, tanto erano curvati verso l’interno, per via della paraplegia agli arti inferiori, esito di una sofferenza neonatale.
«Sei stata la prima persona a cui ho pensato quando ho saputo che mia madre era morta. Volevo chiamarti stanotte.»
Valentina, la mamma di Simone, la ricordavo bene. Aveva partecipato a diversi gruppi di sostegno, organizzati per le famiglie degli utenti del Centro Diurno per persone con disabilità, dove Simone si recava tutti i giorni e dove io lavoravo come assistente sociale. Era una donna ancora molto bella, nonostante fosse già sopra gli ottanta anni. Sul volto, scavato da profonde rughe, splendevano gli stessi occhi azzurri del figlio. Il marito era morto da diversi anni, lasciandole in eredità una casa con le scale, un pezzo di terra, una vecchia fiat Panda, un figlio disabile a cui provvedere.
Ero andata alla camera mortuaria con un peso sullo stomaco. Non intendevo porgere l’ultimo saluto a Valentina stesa dentro a una bara; volevo ricordarla così come l’avevo conosciuta in vita. Non l’avevo mai vista indossare, sebbene fosse vedova, un solo accenno di nero.
«Faccio solo lavatrici di abiti colorati, la vita è così difficile che non serve aggiungere altro nero addosso.», mi diceva mostrandomi la sua camicia rosso corallo, su cui era appoggiata una collana variopinta.
«Dopo la nascita di Simone, dopo tre mesi di terapia intensiva tra la vita e la morte, i dottori mi dissero che potevo lasciarlo in ospedale. Avrebbero pensato loro a metterlo in un Istituto. Non avrei dovuto pensare a nulla.» Mi raccontò una volta, alla fine di una riunione con le famiglie. «Non sapevano dirmi se mio figlio avrebbe mai camminato, parlato, se sarebbe stato in grado di mangiare da solo. Le conseguenze dei danni cerebrali sarebbero stati visibili solo più avanti negli anni. Di certo non sarebbe mai stato normale. Dissero proprio Suo figlio non sarà normale. Farà una vita impossibile, ci pensi».
«E lei?» chiesi.
«Io risposi soltanto: si capisce che lei non è madre, non c’è niente di normale nell’essere una madre. Niente di straordinario. Ho solo scelto di essere madre. Lo ricordo ogni volta che faccio le scale con lui. Simone si appoggia alla mia schiena per salire a casa, gradino per gradino. In fondo credo che ogni madre faccia questo: fornisce l’appoggio utile per salire qualche tipo di scale».
«E adesso che anche mamma non c’è più, che cosa mi resta?» mi disse Simone scosso dai singhiozzi.
Nel frattempo un pulmino, con dentro i compagni di Simone del Centro Diurno e qualche mio collega vestito di scuro, aveva parcheggiato nel posto dell’Ospedale riservato ai disabili.
Si avvicinarono a Simone cauti, appoggiandosi al muro, come se dall’altra parte ci fosse uno strapiombo. Lui li vide arrivare con l’occhio buono. Sorrise, disse solo: «Va’ chi c’è!» e poi pianse. Valerio, il ragazzo con la Sindrome di Down che lavorava alla Caffetteria del Centro, gli cinse forte la vita da dietro la schiena e, così avvinghiato, pianse con lui. Flavia, dai ricci scomposti sopra le spalle, con una diagnosi di disturbo di personalità Borderline, gli prese le mani e, forse per la prima volta nella sua vita, non disse nulla. Roberto, ipovedente, cercò a tentoni il viso di Simone. Mirella, con un grave deficit dell’orientamento e dell’organizzazione del pensiero, iniziò a dire cose a vanvera, tipo che le dispiaceva molto perché sua madre si era persa per il lungomare di Torino, voleva portarle un gatto ma non lo trovava più. Federica, dal quoziente intellettivo di una bambina di cinque anni e un disturbo di iperattività, saltellava per il corridoio, chiedendo al suo educatore: «Perché si piange se poi ci si rivede in Cielo?».
Io, semplicemente, di fronte a tutto questo non ce la feci.
Arretrai di qualche passo, fino a raggiungere il cortile assolato del piazzale.
Stravolta e commossa pensai all’amore che resta.