
La tenda non voleva saperne di scorrere a destra e sinistra. Dovetti lasciare le stampelle contro il termosifone, restare in equilibrio sulla gamba, prendere i cordini e annodare fra loro le nappe.
Il prato davanti all’ospedale era illuminato, tranne una sottilissima fascia ai piedi dell’edificio. Non potevo vedere il sole, ma lo immaginavo sopra le nostre teste sorridere pallido alle signorine assiepate quattro piani più in basso. I cancelli ancora chiusi evitavano che le fanciulle in ghingheri sciamassero dentro prima dell’orario di visita, non solo in cerca dei cari ma anche in fuga dalla frescura di fine inverno.
Poggiai l’anca al termosifone, i pantaloni di fustagno della divisa mi avrebbero protetto dal calore per un po’, cercai la mia dolce metà fra le altre. Era là, in attesa, ma non mi riuscì di distinguerla nella colorita confusione di foulard e cappelli. Avrei dovuto attendere che salisse da me.
L’infermiera di turno entrò, sul suo carrello un mazzo di rose rosse era posato accanto alla siringa destinata alle mie natiche. La afferrò e indicò il letto “In posizione, soldato.”
“Oggi no, voglio essere lucido. Voglio sentire tutto.” sorrisi.
L’infermiera sorrise anche lei, gli occhi che contavano i boccioli e le tirarono un sospiro fuori dal petto.
“Averti conosciuto prima…” posò i fiori dentro la brocca dell’acqua.
“Niente da fare, signorina Maddalena. Ada mi aveva già.” alzai le spalle, con il rammarico del ladro che consola il derubato.
Si allontanò, sulla porta si voltò un attimo, mosse le labbra in un sussurro.
“In bocca al lupo.” sparì nel corridoio col suo carrello e la mia siringa.
Lo sciame di cappellini era sparito.
Lasciai le stampelle dov’erano, saltellai verso i fiori, per stare ritto mi appoggiai alla sbarra di metallo ai piedi del letto. Spazzolai con le mani la giacca, le mostrine, il taschino che presto sarebbe stato ornato dalla medaglia e attesi.
Attesi.
Il ginocchio cominciava a dolermi, il colletto a pizzicare la nuca sudata. Cambiai posizione, più di lato, per appoggiare al letto un peso maggiore. Fu allora che sentii il singhiozzo.
In corridoio, appena fuori dalla mia porta.
Mi riaddrizzai all’istante.
“Chi c’è?”
Un fruscio, vestiti di seta, qualche colpo di tacco.
Cercai le stampelle, incerto se prenderle per andare a vedere.
“Stefano.” la voce del padre di Ada mi fece voltare di nuovo verso la porta.
Gli sorrisi, ma il suo viso estinse il mio entusiasmo.
Aprì bocca ma non pronunciò parola. Si mosse verso di me, poggiò le mani sulle mie braccia inerti stringendo con vigore, una scossa al corpo che mi mandò in pezzi l’anima.
Si fece indietro.
Indicai le rose, undici, di un rosso vermiglio “Sono… sono per lei.”
“Sì, già.” esitò “Non… non le prenderò.”
Si allontanò, indietreggiando a piccoli passi.
“Cerca di stare bene, Stefano.”
Sparì nel corridoio.
Le pareti.
Convergevano su di me.
Non avevo respiro.
La finestra, saltellai ancora, la aprii.
Stavolta la vidi, scortata, a capo chino.
Urlai il suo nome.
Al vento, e il sole ne rideva.