Legame di sangue

Allo scoccare della mezzanotte la stanza iniziò a sanguinare.
Dapprima si formarono macchie scure sul soffitto, poi iniziarono a cadere le prime gocce.
Di lì a qualche ora il sangue si sarebbe dissolto senza lasciare traccia, ma Rita ancora si ostinava a combatterlo.
Aveva spostato il letto in un angolo e aveva steso sul copriletto una cerata. Quante lenzuola aveva buttato via, nei primi giorni, perché non si sentiva più in grado di usarle.
Era il 127° giorno. Li aveva contati uno per uno.
Non poteva andarsene, era costretta a rimanere lì, in quella maledetta camera. A osservare il sangue prenderne possesso, notte dopo notte.
C’erano brocche ad accoglierlo, ben quattordici, e quattro catini sistemati nei punti strategici. Più tardi, verso le quattro, avrebbe iniziato a colare anche dalle pareti, e lì non poteva farci niente. Era troppo. Allora si sarebbe accucciata nella poltrona, avvolta nell’impermeabile, tenendo le gambe sollevate.
Era così, ogni notte, da quando l’aveva uccisa.
Niente sangue, solo qualche goccia in più della solita medicina. Un sovradosaggio che le era stato fatale.
Non era stato odio, solo disperazione. In quella cupa stanza, proprio sopra la sua, consumava i suoi ultimi giorni, bloccata a letto. Era diventata acida, odiosa, piena di rabbia contro il mondo intero, ma c’era solo lei con cui sfogarsi.
Ne era valsa la pena. Nonostante il sangue. Tutto, pur di non sentire più il bastone battere sul pavimento. A ogni ora, con ferocia, un richiamo infernale.
Era quella la punizione per chi uccideva la propria madre?
Non le importava, era pronta ad accettarla. Anche costretta. Non poteva permettere che altri occupassero la stanza, doveva viverci lei. Se qualcuno avesse visto il sangue avrebbe capito che non era stata una morte naturale. Doveva celare quel segreto nel suo cuore.
Fino a quando? Quanto avrebbe potuto ancora resistere?
Era dimagrita, riusciva a riposare solo un paio d’ore, dopo l’alba. E poi niente, doveva prodigarsi per gli altri, come aveva sempre fatto. Lei era la zitella, la figlia nubile, accolta per pietà. Aveva sostituito un padrone a un altro. Molti altri, in verità. Tre fratelli, che vivevano tutti lì, in quella grande casa. Con mogli e figli.
La sua dannazione. La sua condanna.
Non era cambiato niente, non sarebbe mai cambiato.
Quella notte fece una cosa insolita: non attese. Si liberò dall’impermeabile e attraversò la camera, incurante della pioggia rossa. Sentì le gocce caderle addosso, inumidire l’abito.
Uscì fuori e tirò un sospiro di sollievo. Avrebbe dovuto farlo prima. Andò nello studio, anelando un attimo di riposo. Sulla porta restò bloccata, a bocca aperta.
Non era possibile, il sangue era giunto pure lì. Colava dalle pareti e dal soffitto, aveva formato una pozza sul pavimento, macchiando anche il tappeto.
Non riuscì a resistere e urlò: «Perché non vuoi lasciami in pace? Hai distrutto la mia vita, che altro vuoi?».
Scappò, in lacrime, ed entrò nella lavanderia. Lì la situazione era pur peggiore. Tutta la biancheria riposta era rossa, impregnata di quell’immonda sostanza.
«Perché?», gridò. «Perché il sangue?».
Perché lì, soprattutto. Al piano superiore dormiva suo fratello, il minore, mentre l’altro occupava la stanza accanto. Proprio sopra lo studio.
Aggrottò la fronte. Aldo, il maggiore, si era trasferito in camera della mamma, dopo la sua morte. Lui e tutta la sua prole. Piccoli demoni sfacciati.
«No», disse Rita, però non riuscì a scacciare il pensiero.
«No», ripeté ancora.
Forse non era una punizione, ma una premonizione. Un invito. Ad andare fino in fondo, a liberarsi completamente. Un’indicazione di ciò che avrebbe dovuto fare.
Uscì di casa e raggiunse la legnaia. Prese l’ascia, con cui era solita spaccare la legna. Poi tornò in casa.
Salì le scale lentamente, assaporando quell’attimo di felicità. Come era stata stupida, non aveva capito. Era quella la vera redenzione: appropriarsi della propria vita, finalmente. Per la prima volta. Non essere più schiava di nessuno.
L’ascia era leggera tra le sue mani, come il suo cuore. Era già libera.