L’Esercito Rosso

La luce del mattino riempie la camera. Ho tenuto le imposte mezze aperte così da essere il primo ad alzarsi: le richiudo in fretta, prima che i miei fratelli se ne accorgano e mi diano un sacco di botte. Mi infilo gli stivali, indosso il mantello ed eccomi in strada. Il cielo è una lastra di granito, scrosci d’acqua insistono su tetti e camini; non è una novità, per noi di Città Palude.
M’hanno raccontato che a sud dell’Impero i bambini non conoscono la pioggia. A questa storia credo poco, mica son nato ieri: sarà pur capitato che l’abbiano vista, qualche volta. Magari non se ne sono fatti un’idea chiara; comunque sia, qui ce n’è sempre in abbondanza. Da noi i vecchi portano rughe scavate dall’acqua che essi hanno vissuto. E quando raccontano le storie, se si accorgono di non essere ascoltati, levano un dito al cielo e urlano: “Non può piovere per sempre!” e tutti s’azzittiscono. Sinceramente non capisco perché: quando il tempo si rasserena io sono felice.
Per le strade non c’è anima viva: la mia avventura può iniziare. Conosco un’uscita segreta dalla città: il buco nel muro è così piccolo che solo bambini e gatti ci possono passare. Anche il mio amico Ortica la conosce: ieri è andato in esplorazione ed è tornato con la grande notizia. “Non dirlo a nessuno”, m’ha sussurrato. Io ho giurato e sputato, così m’ha confidato d’aver visto l’Esercito Rosso.
Esco dalle mura e mi inoltro nel bosco, qui fa più buio. Ortica mi ha spiegato un percorso per evitare le sentinelle ed arrivare dritto all’altura: da lì potrò godermi lo spettacolo. L’Esercito Rosso! Me l’ha raccontato nei minimi dettagli: ci sono file e file di cavalli, bianchi come nuvole d’estate; in sella gli ufficiali portano mantelli color sangue, tanto lunghi che sfiorano terra. I soldati marciano o fanno la guardia con i fucili a baionetta, e l’accampamento è tanto grande che si perde all’orizzonte.
Continuo a camminare, l’ultima parte è la più difficile, non dà pace ed il mantello si impiglia a più riprese.
A volte vorrei quasi che papà avesse prestato servizio in quell’esercito, anziché tra le nostre fila; mi sarebbe piaciuto vederlo con l’uniforme rossa. Avrebbe fatto una gran figura.
Vedo uno spiraglio di luce: manca poco. Arranco fino all’uscita e mi fermo a ridosso del precipizio: sotto di me, enorme, l’Esercito Rosso disteso sulla piana. Mi faccio piccolo e lo osservo.
Ortica ha ragione su un punto: è così vicino che potresti colpirlo con due tiri di fionda. Per il resto è tutto diverso, è tutto sbagliato.
Il rosso dei mantelli è sbiadito, è un rosa sporco e schifoso. I soldati sono dei vecchi ricurvi sulle loro baionette. Per l’accampamento girano donne che mi fan paura, qualcuno le abbraccia e se le porta nelle tende. Vedo gente che si azzuffa, che prova ad accendere fuochi che fanno solo fumo.
L’avanguardia sta provando a guadare la Palude: finché piove non ci riuscirà. I cavalli nitriscono e affondano nel fango. Il fango, Dio mio! È incollato a tutto: persone, armi, animali.
E allora vorrei che la pioggia non finisse mai. Che tenga lontani questi esseri dalle nostre terre. Chi li ha chiamati? Cosa vogliono?
Poi ripenso ai vecchi di Città Palude, che di Eserciti ne hanno visti e di tutti i colori.
Li vedo mentre alzano il dito ossuto: la loro non è più una minaccia, ma un fioco sussurro: “Non può piovere per sempre.”