L’isola

Primo classificato nella 120° Edizione di Minuti Contati con Enrico Pandiani come guest star, un racconto di Stefano Pastor.

 
«Che diavolo crede di fare?»
L’avvocato abbassò la voce. «È solo nel tuo interesse.»
Si spazientì. «Ma io sono italiano! Sono nato qui e anche mio padre!»
«Sì, ma non lo sembri.»
«E allora?»
«Non vanno tanto per il sottile, guardano solo il colore della pelle.»
«Mi vuole rovinare?»
«Senti, che sei colpevole lo sappiamo entrambi. Quei soldi tu li hai rubati. Vuoi essere italiano? Allora ti attendono da otto a dieci anni di carcere. È questo che vuoi?»
«Se non lo fossi cosa cambierebbe?»
«C’è la deportazione, solo quella.»
«Dove? Io sono nato qui, non c’è altro posto dove andare.»
«Non cambia niente, anche ce lo avessi non ti riprenderebbero lo stesso. Sono troppi, non li vuole più nessuno. No, io sto parlando dell’isola.»
Aggrottò la fronte. «Quello è un lager!»
«Sciocchezze, solo propaganda sovversiva. È un mondo a parte, una grande città multietnica. Sull’isola devi solo registrarti, e poi sei libero di fare quello che ti pare. Non hai più alcun obbligo, eccetto la proibizione di tornare qui.»
«Perderei ogni cosa.»
«Tu non hai più niente, solo debiti.»
Sbuffò. «Se è facile come dice, allora perché le carceri sono piene? Perché non sono tutti là?»
L’avvocato ridacchiò. «Non tutti gli italiani hanno la fortuna di avere la pelle del tuo colore.»
«Sa tanto di fregatura.»
«Prova, che hai da perdere? Sempre meglio che finire in galera. Uno come te se la passerebbe male.»
«Cosa devo fare?»
«Niente, lascia fare a me.»
 
Sull’isola, nell’ufficio per la registrazione dei nuovi abitanti.
Sembrava proprio il paradiso. Tanto sole e spazi aperti. Cordialità e gentilezza.
Non riusciva quasi a crederci, non vedeva l’ora di concludere con le formalità per poter dare un’occhiata in giro.
«Circa il mio reato…» abbozzò.
L’impiegato scosse il capo. «Non ci interessa, non è rilevante.»
«Allora di che ha bisogno?»
«Etnia?»
«Io, be’… non saprei.»
«Che significa? Da dove arrivi? Marocco, Tunisia, Nigeria?»
«Io sono italiano. Sono nato in Italia. E anche mio padre.»
«Il colore della pelle ti contraddice.»
«Che ci posso fare?»
«Un antenato nero devi pure averlo avuto.»
Lo ammise. «Durante la seconda guerra mondiale, nonna si è innamorata di un soldato straniero. Lui purtroppo è morto in combattimento.»
«Bene. Etnia?»
«Mai conosciuta. Non parlava la sua lingua. Non ha mai saputo da dove venisse.»
Gli gettò un’occhiataccia, poi alzò la voce. «Ce ne hanno mandato un altro.»
Un superiore venne a controllare.
«Sono nei guai?», chiese il nuovo arrivato.
«Non dovrebbero mandarceli tutti qui», borbottò l’impiegato. «Non sappiamo cosa farcene.»
«Mettilo con gli altri», decise il superiore.
«Dove?», si preoccupò.
 
Non gli andò male, almeno all’apparenza. Era un gran casermone, però pulito e ordinato. Erano in tanti a spiarlo.
Lo accolse un cinese.
«Tu da dove arrivi?», gli chiese in perfetto italiano.
«Roma», ammise.
Gli strinse la mano. «Io sono di Milano. Fammi indovinare, il tuo avvocato ti ha consigliato questo espediente?»
«Ho sbagliato ad accettare?»
Alzò le spalle. «Non è un brutto posto, questo devo ammetterlo. Non ci sono regole e si vive abbastanza bene. Però…»
«Però?»
«Sono tutti molto nazionalisti. Si sono spartiti l’isola. C’è una zona per ogni etnia, per piccola che sia. Cooperano tra loro e stanno bene. Ma sono tutti gruppi chiusi. Molto chiusi. Poi ci siamo noi.»
«Noi?»
«Quelli senza una patria. I paria. Qui siamo gli estranei, siamo appena tollerati. A noi gettano gli avanzi, ci considerano parassiti. Non ti sarà facile trovare un lavoro, non ci vuole nessuno. Non ti nascondo che i primi tempi sarà molto dura. Se in Italia ti consideravano diverso, qui sarà molto peggio.» Gli sorrise. «Però tu sei giovane e forte, forse potresti anche riuscire a sopravvivere.»