Logorio

Lui apre la porta alle diciannove e trentatré. Ha la faccia stanca, gli occhi senza entusiasmo. “Sono qua!”. Dovrebbe essere contento di essere a casa dopo il lavoro, ma qualcosa nel suo tono tradisce emozioni contrastanti.
Lei è al computer quando lo sente rientrare. “Eccoti!”. Gli risponde distratta, le mani che ballano sopra la tastiera anche se in realtà sta usando solo i due indici: non ha mai davvero imparato a dattilografare.
Lui chiude la porta alle sue spalle cercando di non farla sbattere, poi si toglie la giacca e l’appende sul gancio dietro alla porta, una piccola morte nera da appendere al muro che lei gli ha regalato quarantadue giorni fa. “Non troppo entusiasmo, eh!” Il tono vuole essere cordiale, ma non riesce a celare il suo nervosismo.
Lei riduce teams a icona e si alza trascinando indietro la sedia. “Scusami, stavo finendo una cosa.” Si volta verso di lui e lo raggiunge all’ingresso del monolocale. “Com’è andata la giornata?”
Lui la guarda con un’espressione tra il divertito e lo sconsolato, pare stia per dare una delle sue risposte sarcastiche. “La solita merda, grazie.” Ecco, appunto. “E tu? Hai fatto finta di lavorare anche oggi?”
Lei lo fulmina con lo sguardo. “Certo, se no a cosa serve lo smart working?”, il tono di chi in realtà sta pensando ma vaffanculo, coglione!
Lui capisce di aver pestato un merdone. “Dai, scusami, lo so che lavori tanto”. Prova a rimediare. “Prendiamo qualcosa per cena?”
Lei ci pensa qualche secondo. “Va bene, dai”. Un altro istante di silenzio. “Scusami se non ho preparato nulla, non ho avuto il tempo.”
Lui le si avvicina. “Non ti preoccupare, lo so.” Le dà un bacio sulla fronte. “Giapponese?”
“Sì, dai!” Gli sorride. “Ci penso io per l’ordine, tanto ho già il computer acceso.”
Lui si avvicina al frigo, lo apre, afferra una birra e la stappa con l’apribottiglie di Darth Vader che ha comprato su ebay tre anni e venticinque giorni fa. Ne assapora una lunga sorsata. “Per me il solito.” Cioè quattro nighiri al salmone, quattro involtini primavera, otto tiger roll e un temaki con tonno e cetriolo.
“Roger!” Lei si risiede davanti allo schermo. “Finisco una roba di lavoro e faccio l’ordine.”
Lui manda giù un’altra sorsata e rimugina un po’. “Certo che…”
Lei attende, ma lui non finisce la frase. Si gira verso suo marito. “Certo che?”
“No niente.” Lui si butta di peso sul divano, le molle scricchiolano. Sarebbe davvero da cambiare, quel catafalco.
“Dai, spara la cazzata.”
“Che vita facciamo io e te? In questo buco di culo di città con due lavori del cazzo, senza prospettive.”
Lei torna a girarsi verso il computer, un magone enorme in gola. Pensa con cura alle parole da dire, ma non dice nulla. Invia l’ordine al ristorante di via Trebbia 23.
“Non rispondi, come al solito.” Le molle sottolineano il suo nervosismo.
“Che cazzo ti devo dire? Va così. E comunque a me il mio lavoro piace.” Più che altro le piace Diego. Hanno scopato gli ultimi otto giorni che lei è andata in ufficio e chatta con lui ogni volta che lavora da casa – due ore e ventidue minuti, oggi. Pensando a lui si è anche masturbata con un porno, poi ha cancellato la cronologia.
Lui si alza dal divano in una sonata per cigolii in fa maggiore e si avvicina a lei. Le appoggia la mano vuota sulla spalla. “Scusami, sono stato uno stronzo.”
Lei fissa lo schermo, ha gli occhi lucidi. “Ne parliamo, promesso.” Con la mano afferra quella di lui sulla sua spalla. “Solo non oggi, stasera sono troppo stanca.” La sua espressione è sincera, gli vuole bene per davvero.
“Certo!” Lui ritrae la mano. “Dai, mentre aspettiamo finisci pure di fare le tue cose.” Beve ancora un sorso e torna verso il divano.
Lei chiude la pagina di justeat, riapre teams e fissa l’elenco delle chat di lavoro. Quella che le interessa ha il pallino verde. Non vede l’ora di rientrarci dopo cena, quando suo marito sarà crollato a letto.
Vedo i suoi occhi brillare attraverso la webcam mentre sullo schermo le piazzo un pop-up con l’ultima offerta di poltronesofà.