
Il desiderio.
Scorre attraverso un corpo interrotto, arrivando in mezzo alle tue gambe morte. Un impulso elettrico quasi impercettibile, ma ostinato. Insistente come chi continua ad aggrapparsi a una vita a metà.
Con me ti è successo già tre volte. Tre volte su dieci. Per te, è un gran primato.
Come da prassi, siamo seduti uno di fronte all’altra. La mia seduta è più alta della tua. D’altronde sono io l’elemento dominante della coppia. Le mie unghie vanno su e giù, sfiorandoti la pelle lungo il braccio che mi hai teso. Per quanto tu riesca a tenderlo, s’intende.
I miei seni tondi, che strabordano leggermente dal reggiseno nero, ti fanno dimenticare per un attimo la stasi in cui sei recluso.
Mi sorridi. O meglio mi sorridi nella tua testa. Io, in realtà, vedo il tuo naso incresparsi e le labbra appuntirsi, per poi ricevere uno sbuffo che ti esce dalle narici.
Mi hai raccontato che lo specchio te l’ha sbattuto in faccia tutte le volte che ti sei accanito contro te stesso, nel tentativo di far uscire quel sorriso, così come te lo immaginavi.
“La prova sorriso”, l’hai chiamata. Mi hai confessato che, quando hai saputo di essere stato accettato dal progetto, l’hai provata fino a sentirti la pelle sugli zigomi tirare per giorni.
Ma non c’è niente da fare: le tue fantasie si esprimono in una maniera difettosa. Del resto, non vedo come possa essere altrimenti.
E allora finisce che le tieni per te, le fantasie. Le proteggi dalla corruzione del bozzolo in cui vivi. Un bozzolo martoriato, congelato nel dolore. Un bozzolo che non si schiuderà mai.
Però quando tuffo i miei occhi blu nei tuoi, proprio come adesso, la tua determinazione vacilla, si frantuma.
Eppure sei uno che ne ha tanta, di determinazione: nonostante tu la perda ogni giorno da quando sei nato, continui ad avercene.
Ma non ora. Non qui. Non con me.
E allora contrai le braccia, i polsi piegati come a volerti toccare gli avambracci con le dita. Il mento e la guancia ancora più spiaccicati sulla spalla, a nasconderti.
Ti vergogni a confessarmelo, ma ti fai coraggio: – Io… – O respiri o pronunci le parole. I muscoli del collo ti si contraggono in spasmi, la lingua va a depositarsi ribelle su un angolo della bocca. Un rivolo di saliva ti solletica un lato del mento. – Vorrei av… – se non si trattasse di me avresti già rinunciato – averti di più.
– Caro. – La mia voce è gentile, ma tradisce un po’ di disappunto. Ti accarezzo una guancia con la stessa mano che prima ti faceva i grattini. Tu inspiri il mio profumo agrumato, mentre i miei occhi sono costretti ad abbandonarti di nuovo negli abissi, risalgono a galla, per riprendere fiato. – Non posso farlo. Lo sai questo, no?
Il protocollo…
Abbassi lo sguardo, deluso.
Come biasimarti… il senso di colpa mi schiaccia.
D’istinto, ritiri il braccio che mi avevi affidato, appoggiandolo sul bracciolo della sedia a rotelle.
– Ti va di parlarne?
Non mi rispondi. Credevi di averlo provato tutto, il dolore.
Ti sbagliavi.