
«Credi nella reincarnazione?» domandò Giovanna, guardandolo attraverso il bicchiere pieno di whisky.
«Assolutamente no! Potrei citarti gli orfici dell’antica Grecia i quali ritenevano che l’anima s’incarnasse di nuovo in un altro corpo. Nel mondo cristiano nessuno ha mai sostenuto la reincarnazione perché è incompatibile con la dottrina del Vangelo la quale insegna che la Salvezza si realizza nel corso di una sola esistenza. Ma io non credo nella reincarnazione semplicemente perché non credo nell’anima.» rispose con sussiego Alberto.
«Ma ci credeva tua madre!» lo incalzò la fidanzata.
«Povera mamma, negli ultimi giorni straparlava, non era lucida; non posso attribuirle nessuna vera convinzione!»
«Però coccolava sempre la sua gatta come solo una persona consapevole poteva fare!»
«Cara, mia mamma è morta per un infarto ma il suo cervello comunque non funzionava più! Ma adesso lasciamo stare mia madre. Vieni più vicino accanto al camino.»
«Ma dov’è andata a finire la gatta?»
«È sparita ma ora non parlare; baciami!»
Mentre Alberto ravvivava il fuoco, distaccandosi un istante dall’abbraccio di Giovanna, un fulmine illuminò la sala e subito dopo i vetri della finestra tintinnarono per il boato del tuono. Un colpo alla porta seguito da un secondo e da un terzo. Erano le undici di sera e nella loro villa isolata in aperta campagna la coppia non aspettava nessuno. Rimasero in silenzio per alcuni istanti, poi gli occhi di Giovanna implorarono l’uomo di andare a controllare.
Dallo spioncino non si vedeva nulla: la pioggia scrosciante provocava un effetto nebbia.
Un secondo tuono seguito da un miagolio. Alberto prese la pistola dal suo stipetto e aprì la porta; inzuppata, Micillina, la gatta di sua madre.
«Ma dov’eri finita? Credevo che te ne fossi andata!» esclamò Alberto, grattandosi la testa.
Si accinse a prenderla in braccio per asciugarla ma la gatta si acciambellò sul tappeto vicino al camino acceso e si addormentò.
Da quel giorno Micillina seguiva Alberto dappertutto. Si comportava in modo strano, con un’intelligenza che prima non aveva mai manifestato. Gli capitava di non trovare la scatola di piselli che aveva messo nella dispensa. Ebbene la gatta richiamava la sua attenzione con miagolii e movimenti delle zampe fino a fargli scoprire dove l’aveva dimenticata.
Gli episodi si susseguivano ogni giorno ma lui non ci faceva più caso. Si era persuaso di avere una cagnetta servizievole anziché una gatta indipendente (come era stata prima) e non disse nulla alla sua fidanzata.
Poi un giorno capitò un fatto misterioso anche per lui così razionale. Stava sfogliando un libro di poesie cercando quella che sua madre amava di più. La gatta gli balzò in grembo e, allungata una zampa sulle pagine, le sfogliò fino alla poesia del Pascoli. Alberto, quasi in trance, fu spinto a leggergliela:
«Era una gatta, assai trita, e non era / d’alcuno, e, vecchia, aveva un suo gattino. / Ora, una notte, (su per il camino / s’ingolfava e rombava la bufera)/ trassemi all’uscio il suon d’una preghiera, / e lei vidi e il suo figlio a lei vicino./ Mi spinse ella, in un dolce atto, il meschino / tra’ piedi; e sparve nella notte nera./ Che nera notte, piena di dolore! / Pianti e singulti e risa pazze e tetri / urli portava dai deserti il vento. / E la pioggia cadea, vasto fragore, / sferzando i muri e scoppiettando ai vetri. / Facea le fusa il piccolo, contento. »
Finito di leggere, calde lacrime scesero lungo le gote di Alberto che tentò di accarezzare la gatta che però lo graffiò agli occhi. Il dolore lancinante lo spinse ad afferrarla ma gli sfuggì. Non vedeva più nulla ma riuscì ad avvicinarsi a tentoni al tavolo dove c’era il cellulare. Avrebbe chiamato Giovanna e poi ucciso anche quell’animale. Aprì un occhio; il cellulare tra le zampe di Micillina. Si avvicinò alla porta della cucina per usare il telefono fisso. Inciampò in qualcosa; era la gatta. Cadde contro lo spigolo del tavolo. Il sangue cominciò a sgorgare dalla tempia.
La gatta si avvicinò al suo orecchio:
«Non mi puoi uccidere una seconda volta, figliolo!»