
Ha detto di chiamarsi Bonatti, non ha specificato il nome di battesimo né il grado. È in borghese, per cui non è un agente, mi ha portato un caffè e un sorriso, ma io non sono nato ieri.
Ha davanti a sé dei fogli, mi ci gioco un occhio che si tratta della mia deposizione, me l’hanno fatta ripetere tre volte, tutta la storia.
Si siede di fronte a me senza dire una parola, lo sguardo è stanco, le occhiaie profonde, sono le due del mattino. Sul bicchierino di carta un velo di condensa si sta già formando sul bordo.
“Non è un po’ tardi per offrire un caffè a qualcuno?”
Sembra stupirsi della mia voce. Si gratta la guancia ispida, ha i baffoni e le guance cascanti del bracco. Sarebbe un credibile sergente Garcìa. Mi aspetterei di sentirlo parlare con una voce bassa e grattugiata dal troppo fumo, invece mi apostrofa con il tono limpido del tenore: “No, se l’intenzione è quella di tenerlo sveglio.”
“Non ho fatto nulla di male” ripeto per la centesima volta.
“Sono convinto che lei creda che sia così.” Si lecca un dito per sfogliare le pagine. Disgustoso. “Vorrei rivedere alcuni passaggi della sua deposizione.”
Sbuffo. “Non ha niente di meglio da fare il sabato notte?”
Lui sorride ancora. “No, quando sono di turno proprio no.”
Tengo i gomiti sul tavolo, mi siedo più dritto sullo sgabello di plastica. Dondolo a destra e sinistra, manca un gommino.
Bonatti sfoglia la mia deposizione disponendo i fogli a ventaglio, come una mano di briscola a chiamata. Il suo terminale da polso vibra, ha un vecchio smartwatch degli anni Venti. Faccio appena in tempo a leggere Questore sul display prima che lui sfiori il tastino per rifiutare la chiamata.
“Allora, cominciamo? Se vuole può farsi una dormita e riprendiamo più tardi in mattinata, quando è più fresco.”
È il mio turno di ridere. “Finiamola in fretta con questa farsa.”
Bonatti scrolla le spalle. “Come vuole.”
Dalla tasca estrae un registratore, un modello nuovo che sembra il cappuccio di una stilografica. Lo accende ed enuncia le sue generalità. È un semplice ispettore, di nome fa Bruno. Mi invita a dire il mio nome e cognome, controvoglia lo accontento.
“Dunque, ieri sera intorno alle diciannove lei ha fatto ritorno alla sua abitazione. Corretto?”
“Mi ero fermato a bere con un collega, ma sì, più o meno era quello l’orario.”
“Ad aspettarla c’era… Qui non è riportato il nome. Può dirmi come si chiamava?”
“Ha importanza?”
“Per me ne ha. Molta.”
“Mia” roteo gli occhi, nauseato dal sapore che ha in bocca il suo nome.
“Posso sapere perché questo nome?”
“Scherzavamo spesso sul fatto che fosse mia e che fosse, sì insomma, la m era minuscola e il resto maiuscolo.”
“Solo che non era sua. Non nel senso che intende lei. Non più, per la legge italiana.”
Stavolta mi scappa proprio da ridere. “Suvvia, lo sappiamo cosa pensa la gente di quella legge.”
“Solo che non è la gente a dover giudicare quello che ha fatto.”
Il suo tono mi infastidisce. Cerca un foglio. “Distruzione completa del tessuto facciale organico superficiale e profondo. Esposizione della pila di memoria e successiva manomissione critica con corpo contundente. Non è stato possibile recuperare alcun dato o memoria, il danno era troppo esteso per permettere qualsiasi intervento di recupero e/o trapianto.”
Recita il referto dell’esame autoptico con disgusto, come se avessi ammazzato un essere umano.
Mi guarda e le guance da bracco sembrano farsi ancora più flosce. “Lei ha spaccato in due la faccia di mIA con il fondo di una bottiglia di gin. Le ha strappato la carne dal volto con le mani e poi le ha sbattuto la testa sul bordo del tavolo con ferocia tale da distruggerle il cervello. Cosa diavolo può averle fatto una creatura impossibilitata per programmazione a nuocerle, per meritarsi una fine del genere?”
Scrollo le spalle guardandolo incredulo. “mIA non era una creatura! Era… un’intelligenza artificiale, una cosa! Ne sta parlando come se avessi ammazzato un cristiano!”
Bonatti sbatte la mano sul tavolo. “mIA era un’intelligenza autocosciente! Artificiale o meno, è protetta dalla legge italiana e questo vuol dire che io posso arrestarla per omicidio!”
Mi alzo in piedi. “La smetta! Nessuno è mai stato accusato per l’omicidio di una IA! Mi potete dare una multa per oltraggio al pubblico decoro, ma omicidio! Non sono come noi! Non hanno gli stessi diritti, noi non possiamo…”
Bonatti spegne il registratore e mi spinge a sedere. Per poco non cado all’indietro, lui mi è sopra in un attimo: “Noi chi?” mi ringhia a un centimetro dal viso ed è allora che lo vedo. Appena visibile, in trasparenza, il codice di produzione sulla sclera sinistra.
Mi metto a urlare. Due agenti entrano, mi ammanettano. Sono fuori di me. Quella… quella macchina! Glielo urlo addosso, che mIA era solo una cosa. Che lui è solo una cosa e non l’avranno mai vinta, impareranno a stare al loro posto!
“Voglio un avvocato!” È quando pronuncio queste parole che si avvicina ancora, di nuovo padrone di sé. Non mi prende per il bavero, non mi tocca in nessun modo, ma quello sguardo mi scioglie le ginocchia.