
«Io non ne posso più. La situazione sta diventando insostenibile.»
Mi volto verso Juan, i suoi capelli hanno cambiato colore per l’ennesima volta. Un bel viola questa volta.
«Non possiamo farci niente. Sai come vanno le cose.» Gli rispondo versandomi un altro bicchiere. Rabbocco quelli dei miei compagni «Non è vero, Lucian?» Cerco sostegno nell’elfo, ma lui mi guarda smarrito.
«Lucian? Chi è Lucian?» Mi chiede «Io mi chiamo Laurence.»
«Vedi!» Sbotta nuovamente Juan, sbattendo il boccale sul tavolo «Non è vita, questa. Non è cazzo vita»
«Andiamo, solo perché il vostro autore ha cambiato idea sul vostro nome o il colore dei vostri capelli. C’è gente in questa città che pagherebbe per essere al vostro posto.»
«Ma tu lo sai cosa ho dovuto fare oggi?» Alza ancora la voce «Ho dovuto parlare con quel contadino per nove volte. Nove. Perché prima non gli piaceva il tono del discorso, poi perché usavamo troppi avverbi, poi ha cominciato a preoccuparsi di una roba assurda, tipo che non stavamo mostrando abbastanza o qualcosa del genere. Nove volte la stessa discussione di merda. E manco siamo riusciti a finirla.»
«Tu sei fortunato, Helias.» Interviene Lucian-Laurence, visibilmente stravolto.
«Questo lo dite voi» borbotto io, bevendo un altro sorso di birra.
Improvvisamente non avevo più voglia di stare al tavolo.
«Sapete che c’è?» Mi alzo dal tavolo « Io me ne vado a dormire. Ci vediamo quando avrete finito di lamentarvi»
Pago ed esco dalla locanda.
Le parole dell’elfo pesano come macigni. Credo che loro lo chiamino “blocco dello scrittore”, io ormai sono quasi sicuro che lei mi abbia dimenticato.
Una pallida luce illumina la strada. Non mi ero accorto che si fosse fatta mattina: mi concedo qualche minuto per guardare l’alba prima di andare a dormire, non che domani abbia qualcosa da fare. Non che possa fare qualcosa.
All’improvviso, un calore familiare mi scalda lo stomaco. Che sia…? Non ci credo.
Eppure è proprio così! La mente del mio Narratore si fonde con la mia, quanto tempo sarà passato? Vent’anni? Trenta? È così cambiata, così matura, così… triste.
«Guidami» sussurro, anche se so che non mi può sentire.
Comincio a camminare. So dove stiamo andando, me lo ricordo bene. Se non sbaglio è appena dopo la collina.
Arrivo nella radura. È cambiata, più scura, più tetra. Deve averne passate tante in questi anni.
Il cavaliere è già al suo posto. Sguaina la spada.
«Ultime parole?» Sibila.
Estraggo il pugnale. Questa scena la conosco bene, l’abbiamo già vissuta tante volte.
Ci lanciamo in un duello all’ultimo sangue, schivo un affondo, poi un altro. Cerco di colpirlo ma è tutto inutile.
C’è qualcosa che non va. È più forte, più veloce. Più cattivo.
Riesce a disarmarmi e mi scaraventa a terra. Grido, non me lo aspettavo.
«Di’ le tue preghiere.»
Chiudo gli occhi. Dunque, è così che hai deciso di farla finire? Capisco. Mi dispiace che sia andata in questo modo… ma, come ben sai, tutte le storie devono avere una fine. E poi, in fondo, si può sempre cancellare e riscrivere un’altra volta.