
Se potessi dare una parola a questa situazione? Ineluttabilità.
Accarezzo i bordi tondi e caldi di questa tazza di caffè, vorrei farmi piccola piccola per poterla abbracciare tutta. Era la tazza per la colazione del sabato mattina, quando poi si tornava tutti e due a letto e in un attimo veniva mezzogiorno. Ora è la tazza di una che m’assomiglia.
Lui siede di fronte a me, in questa cucina dai colori stinti che nemmeno riconosco. «Laura, guardami. Per favore.»
È difficile, ma distolgo l’attenzione dal caffè e dalle mie unghie rosicchiate e senza smalto. Nei suoi occhi c’è frustrazione.
Nel primo finale a sorpresa che ho in mente, si scopre che lui non mi ha mai tradita. Che soffro di una malattia mentale per cui mi sono inventata tutto. Che lui in realtà è più un angelo custode, che mi prende la mano e all’improvviso ricordo tutto. E invece no.
«Laura.» Lui si tiene la tempia, fa un lungo respiro. «Non posso stare senza di te. Ce lo siamo promessi.»
Nel secondo finale a sorpresa, si scopre che era tutto un sogno. Che non c’è mai stato un momento in cui lui mi diceva, possiamo superare questo momento. Che non gli ho mai, mai risposto, va bene proviamoci. Un sogno: d’accordo, chiamiamolo pure cliché. Ma a farebbe un sacco bene il sapere di non essere caduta tanto in basso.
«Laura. Ti amo.» E so che lo pensa davvero. C’è amore in tutte le cose che fa. Come quando torna a casa dal lavoro e anch’io sono appena rientrata, quando mi abbraccia e sussurra all’orecchio parole dolci e parole birichine. Le sussurra alla donna che vive con lui, che all’inizio fingeva di ridere, poi ha provato sempre più schifo per sé stessa e alla fine ha smesso di esistere.
In un altro finale che ho in mente, si scopre che mi sono ammazzata nella vasca da bagno e gli ho lasciato una lettera. Una lettera strappalacrime che ci assolve entrambi dai nostri peccati, grandi e piccoli, perché siamo persone e il mondo certe volte non è il posto adatto.
La pendola accanto alla credenza suona la mezza. Odio quel suono, mi è diventato intollerabile.
Lui stende la mano sopra il tavolo, verso di me. Le venature del legno corrono dal suo anulare con la fede fino alla mia tazza. La sollevo e taglio questo contatto accidentale.
«Laura, dimmi cosa posso fare.»
Nel finale più spettacolare, lui è morto e sto parlando al suo spirito. Il corpo giace in una pozza di sangue, la cornetta del telefono penzola inerte e fuori si intravedono già i lampeggianti.
Mi sfugge un sorriso, ogni tanto ci vuole un po’ di cattiveria. Lasciamolo vivo, per stavolta.
Il fatto è che per certi versi sono fortunata. La donna che m’assomiglia non ha commesso sciocchezze, nessun figlio riparatore a cui ora bisognerebbe dare spiegazioni. La donna che m’assomiglia si è lasciata annientare dagli eventi, tutto qui.
Al diavolo anche il caffè. Spingo indietro la sedia, questa normalissima sedia impagliata brutta come la fame in questa storia che non sa di niente.
Lui non si perde un gesto, gli occhi congestionati perché sa che è il capolinea. Schiude le labbra.
«Sta’ zitto, ti prego. Stattene zitto.»
E mi dà ascolto.
In un ultimo finale che ho in mente, è tutta una simulazione e tu guardi da dietro un computer. Per imparare qualcosa, si suppone, ed evitare questo finale sciapo.
Ma nessuna persona ha il tempo di imparare, nemmeno da sé stessa. Ognuna è convinto di avere il modo giusto di risolvere le proprie miserie.
Dalla sua sedia, lui si copre il viso e inizia a piangere. A posto così, posso andarmene senza sbattere la porta. E tanti saluti.
Nei film, questi finali a sorpresa hanno un nome tecnico, ma chi se lo ricorda più. Forse anche solo il fatto di averli ipotizzarli mi ha fatta finire qui, sulla soglia, un passo alla volta.
Non riconosco più nulla di queste quattro mura e di chi ci stava dentro.
E ora purtroppo è tardi, e non riesco a pensare a un finale più semplice.