
Lasciami andare, lasciami andare, gne, gne… Lo so cosa mi direbbe se potesse parlare. Per questo rimango al buio.
La sento respirare, posso anche sentire il battito del suo cuore, Dio, come è dolce.
Dovrei esserle accanto, lì sul pavimento con lei, dovrei accarezzare quel corpo bellissimo, invece me ne sto rannicchiato in un angolo come se fossi io quello che ha urlato come un pazzo per mezz’ora.
Sono solo un paio di metri. Siamo così vicini che allungo una mano nell’illusione di toccarla. Dovrei dirle quanto io la trovi meravigliosa, ma non posso.
Se ne andrebbe. Almeno proverebbe a farlo: come tutte le altre.
Mugola qualcosa, si starà svegliando. Com’è che si chiama? Anna? no, Marianna! Ce l’aveva scritto sulla targhetta sul taschino.
Le piacevo, certo che le piacevo. “Questo prezzo è solo per lei signore, per tutti gli altri lo raddoppio!”
«E allora perché cazzo ti sei messa a urlare!» Mi alzo e accendo la luce.
«Mmm!» Ecco, ora urla di nuovo. Le sono sopra con un paio di passi. Si accartoccia su sé stessa, la afferro per i capelli e la scuoto. Saggio il nodo che ho fatto alla cravatta con cui l’ho imbavagliata e scivolo sulla seta. La guancia è bagnata di lacrime, arrivo alle labbra. Sono calde, umide.
Le lecco. Il sapore della sua saliva è avvolgente. Sento il salato delle lacrime, il ferroso del sangue. Allora mordo.
Strilla ancora forte e a me si spacca la testa.
La spingo e la sbatto contro la parete. «Devi stare zitta, cazzo! Zitta!»
Batte la testa ma continua a urlare. Afferro quello stupido quarantadue pollici appeso sopra di lei e lo strappo via dal muro.
Il televisore le si fracassa addosso con un miagolio elettrico.
Frizza.
Anche lei emette qualcosa che sembra un miagolio, poi finalmente sta zitta. «Stupida! Vuoi farci sentire da tutto il vicinato?»
Sollevo la TV, diavolo quanto pesa, e la appoggio al muro.
L’ho pagata un occhio, come lo stereo, quell’inutile robot per pavimenti… tutto per lei. Per rimanere il più possibile nel suo reparto.
La sua camicetta bianca dell’Euronix è piena di sangue e ci sono frammenti dappertutto.
Le metto due dita sul collo. La giugulare pompa che è una bellezza. È solo svenuta, ma devo stare attento.
Un paio di colpi alla porta.
È il portiere, lo so. Solo lui potrebbe venire a rompere le palle in un momento come questo. «Sì?»
«Sono il portiere, va tutto bene?»
«Più o meno. Il televisore che avevo comprato è venuto giù dal muro.»
«Accidenti! Si è rotto?» Sembra davvero dispiaciuto. Forse l’ho giudicato male.
«Eh… sì, purtroppo sì.»
«Mi dispiace, Marco… posso fare qualcosa?»
«No.» Non credevo fosse una così brava persona. Non credevo nemmeno sapesse come mi chiamo. «Ma grazie.»
«Allora vado, non farti problemi, se hai bisogno: chiama.»
I passi vanno su per le scale, e alla seconda rampa li perdo. Devo stare più attento.
Marianna è distesa in modo scomposto. Non era tanto in disordine al negozio. I teschi di Lisa e Catia la stanno rimproverando dalla mensola. Loro non avevano mai perso l’eleganza.
Le sposto i capelli dal viso.
È fredda.
«Merda!» Lo sapevo. È successo di nuovo.
E ora ci vorranno giorni prima che possa essere esposta accanto alle mie ex. E non l’ho nemmeno scopata. La relazione più corta della mia vita.
Ho bisogno di bere.
La voce gentile del portiere mi solletica le orecchie. Lo ha detto lui, vuole aiutarmi, non vuole che mi faccia problemi.
Lo specchio all’ingresso mi restituisce l’immagine che volevo. Sono ancora in ordine, nonostante abbia sudato sette camice per immobilizzarla, prima. Una dannata falsa magra.
Corro su per le scale e busso.
«Sì?»
Il portiere ha la voce calda, più di quanto ricordassi. È sexy, mi stava spettando, ne sono certo. Ho fatto bene a portare il coltello. «Sono Marco, quello del seminterrato.»
«Oh, bene! Sto guardando la partita, sei arrivato appena in tempo.» Apre la porta, è a torso nudo e i suoi pettorali sono quasi meglio delle tette di Marianna. «Apro un paio di birre, per questa sera non ti lascio andare.»
No, nemmeno io.