Panni sporchi

Antichi segreti che devono rimanere nascosti in questo racconto di Fabio Aloisio, settimo classificato nella 117° Edizione con il collettivo Valery Esperian come guest star.

 
«Qua dietro» fece Giovanni Coami, studiando la planimetria. Avevano ricevuto in eredità dai nonni la villa di via Romagna da cui si abbracciava il golfo di Trieste con uno sguardo.
Suo fratello Roberto saggiò il muro picchiettandolo con le nocche: «Sembra pieno.»
«Al piano sotto e sopra manca questa parete: c’è un vano dietro» borbottò Giovanni, impugnando la mazzuola. «Ed è abbastanza grande per diventare un bello studio» esultò calando il maglio.
Frammenti di calcinacci si frantumarono ai loro piedi. Le narici si riempirono dell’umido odore di malta. Giovanni grugniva a ogni colpo e si trovò ad ansimare per la fatica.
Quando sentì la parete cedere, si abbandonò a un urlo di soddisfazione. Poi aprì un pertugio abbastanza ampio da poterci passare.
C’era un tanfo di chiuso insopportabile con una sfumatura di scaffali di vecchie librerie. Accesero le torce al LED. Nello spazio ristretto davanti a loro c’erano dei bauli di legno e degli armadi dalle venature scure.
«Un tesoro nascosto» azzardò Giovanni, sgranando gli occhi.
Aprirono un armadio: all’interno era pieno di schedari colmi di fogli gialli impolverati. A fianco c’erano delle cassette piene di monili, orologi di classe e denti d’oro.
«Io guardo nel baule» ridacchiò trionfante Roberto.
Giovanni continuò a ispezionare gli altri stipetti e in uno di questi trovò una busta piena di portafogli. All’interno c’erano banconote di vecchia fattura: Lire e Reichsmark.
C’erano poi dei plichi su cui compariva la scritta “Carta annonaria” e ognuna di esse era intestata a una persona diversa, nomi che riconobbe su documenti identificativi contenuti in un altra busta ripiegata.
«Cazzo, guarda qui» imprecò Roberto, richiamando la sua attenzione.
Quando Giovanni si girò, il macabro ghigno di un teschio gli sfavillò di fronte alla luce della torcia. Lo stemma, che sembrava in argento, era fissato su un berrettino dall’aspetto logoro e scuro come l’ebano.
Nell’altra mano suo fratello gli mostrava una divisa sfilacciata sui cui bottoni di chiusura c’era il simbolo della svastica della Germania nazista.
«Ma cos’è questa camera? Nessuno ci ha mai detto niente a riguardo» starnazzò Giovanni.
«Penso di sapere perché» gli indicò una scritta ricamata in oro sul colletto della divisa: F. Coami. Era qualcuno della loro famiglia. «Deve essere stato il prozio Francesco: ti ricordi che ci dicevano che era stato disperso in guerra».
Giovanni ricordò quel nome: l’aveva visto scolpito sulla stessa lapida sulla cui riga sotto compariva ora quello di sua nonna. Poi disse: «Hanno voluto nascondere quello che aveva fatto e chi aveva derubato, murando il suo ricordo qui dentro».
«Cosa ne facciamo ora di tutti quei gioielli?» si accigliò Roberto. «Dovremmo ridarli indietro in qualche modo».
«Niente da fare» lo zittì Giovanni dopo essersi grattato la fronte. «Rimetteremo tutto come lo abbiamo trovato».
«E facciamo finta di niente?» fece l’altro stridulo.
«Com’è stato fatto finora: i panni sporchi si lavano in famiglia».