Pareidolia

La diretta dura ormai da molte ore.
Il tempo si è deformato e sembra scorrere più lento e più veloce. Lento come un istante congelato per sempre. Veloce come i battiti del cuore di Alfredo, come quelli dei suoi genitori, di tutti quelli che sono qui, vicino al pozzo, e di tutte le persone incollate alla TV. Veloce come una caduta. Come il corpo di un bambino che cade giù, sempre più giù, fino al centro della Terra.
“Hanno rotto il diaframma tra i due pozzi!”, la voce del pompiere dietro di me mi arriva ovattata.
“Vuol dire che lo salviamo? Riusciamo a tirarlo fuori?”, una signora anziana mi tira la maglia e capisco che si aspetta una risposta.
Lo salviamo, ha detto. Come se lo salvassimo tutti insieme.
C’è tutta l’Italia a pregare per questo suo figlio improvvisamente tanto amato. Alfredino è il figlio di tutti. Eppure è là, solo.
“Giovanotto”, mi scuote, “giovanotto, lo tiriamo fuori o no? Hanno detto che si è rotto il diaframma, cosa vuol dire? Lo salviamo?”.
Deglutisco e non rispondo.
È caduto giù, sempre più giù, fino al centro della Terra.
Il centro della Terra, oggi, è a sessanta metri di profondità. Ho sentito uno che diceva che la trivella a percussione lo ha fatto scivolare giù a sessanta metri.
“È arrivato Pertini! Se c’è Pertini lo salviamo!”, l’anziana mi molla e se ne va. “Lo salviamo?”, la sento chiedere alle mie spalle con voce rotta.
“Lo salviamo, signora. Lo salviamo”, il pompiere la rassicura.
“Pronto?”, lo speleologo del CAI punta i suoi occhi neri nei miei e mi appoggia una mano sulla spalla.
Annuisco.
Iniziano a calarmi.
 
Sono nel budello da cui si arriva al centro della Terra.
L’inferno è lì, solo sessanta metri sotto i nostri piedi.
Il mio corpo si schiaccia contro la roccia umida.
Il buio mi avvolge mentre striscio sempre più giù, fino al centro della Terra, dove c’è l’inferno in cui è caduto Alfredino.
Lo sento. Mi chiede aiuto. Lo rassicuro, ma ho paura.
Sì, lo salviamo, signora. Lo sto andando a prendere.
 

    (Gianicolo, 10 agosto 1981)

 
 
 
“Passami la boccia di vino”, Andrea mi tende la mano. Faccio un sorso e gli passo la bottiglia. “Se non ti fermo te la finisci da solo. Certo che ci voleva San Lorenzo per tirarti fuori di casa, so du mesi che non esci!”.
Tiro fuori una sigaretta dal pacchetto, me la metto in bocca e la accendo. Sto con il naso in su, gli occhi fissi al cielo che non è buio nemmeno la metà di quel pozzo.
“Bello star qui con te, eh… Sei loquace!”, Andrea si porta la bottiglia alle labbra.
“Scusa, Andrè! Non sono molto di compagnia”, una smorfia mi cancella il mezzo sorriso che cerco di abbozzare.
Andrea mi tira un pugnetto al fianco: “Dai, solito gioco: tu che ci vedi nelle stelle?”. Indica la volta celeste e muove il dito come a unire, con linee immaginarie, quei puntini luminosi. “Io là ce vedo un castello… ce sta pure er drago!”.
Aspiro una boccata di fumo. Lo trattengo. Lo soffio fuori.
“Io vedo un bambino”, rispondo, “c’ha ‘na canotta a righe. Sorride!”