
Lisa ha gli occhi chiusi, le mani unite infilate sotto la guancia destra, il corpo paffuto appoggiato sul prato caldo del pomeriggio. Appena oltre Giacomina bruca l’ultima erba della stagione e agita festosa la campanella come un bambino la notte di Natale farebbe con la sua fetta di gubana.
Lontano, verso ovest, gli uomini in nero stanno correndo come pazzi lungo la strada, su e giù a disegnare curve nervose come fossero dei serpenti che fuggono dalla faina. Scuoto la testa, non sono affari miei.
Do un piccolo morso al pezzo di polenta fredda, poi lo riavvolgo nel foglio di giornale e lo infilo nella scarsella. Mi asciugo la fronte; il vecchio larice fa quello che può per ripararci dal sole, ma sotto alla camicia par la laguna umida di Venezia e la mia schiena è appiccicosa come il tavolo dell’osteria di Pietro quando anche l’ultimo avventore se n’è andato a casa a dormire.
Mi alzo, appoggio i palmi sui fianchi e inarco la schiena all’indietro, gemendo di quel piccolo piacere che può regalare un fascio di muscoli che scrocchia. In pochi passi raggiungo uno dei tanti rigagnoli formati dalle piogge intense delle ultime settimane. Mi chino, riempio le mani a coppa di acqua gelida come la brina del mattino, la porto alla bocca e poi la sento scendere giù per la gola fin nello stomaco, a far compagnia al boccone di poco fa. Mi viene in mente che è la stessa acqua che Lisa ha usato per fare la polenta e questa cosa – chissà perché? –mi fa apprezzare una volta di più la bellezza delle nostre vite semplici.
Là in fondo gli uomini vestiti elegante sembrano non capirlo e continuano a non darsi pace. Forse cercano qualcuno, magari un bambino che si è perso; o forse un foresto ha attaccato lite con qualcuno e ora sono tutti agitati, vallo a sapere. Di nuovo: non mi interessa.
Torno verso il larice, laddove la mia felicità si ripara dal sole e dalla frenesia della modernità.
Lisa riposa ancora, il suo russare flebile che si perde tra le scampanellate del gregge. Ha lavorato per ore alla semina del grano e ora che il sole sta per tramontare si è infine arresa per qualche istante alla fatica.
Sosto appena la sua veste per farmi posto e mi sdraio al suo fianco, inebriato dal suo odore di erba e di sudore e di gioventù. Le accarezzo la testa, i lunghi capelli castani raccolti in una treccia ormai mezza disfatta. Poi chiudo gli occhio anche io, stanco e felice di questo mercoledì di sole caldo, sotto al vecchio larice con la sua ombra ora verde scura, ora grigia ora nera, su questi prati, le nostre pecore, il nostro formaggio, la nostra stalla, il lago sotto di noi, l’immensità delle Alpi a proteggerci.
Lisa mi scuote la spalla, svegliati dormiglione, che è ora di radunare le pecore e tornare alla stalla. Mi sollevo sui gomiti, allungo il collo e le do un bacio sulle labbra screpolate. Arrossisce, mi sorride. Andiamo, le dico. Dobbiamo andare a indossare i vestiti buoni, ché oggi è il nove, Lisa compie venti anni e stasera festeggiamo giù a Longarone.