
L’acqua gelida è una perfetta punizione.
Ho già girato al massimo la manopola della doccia. Dovrebbe ustionarmi la pelle, invece non lo fa. È come immergersi in uno di quei laghi in mezzo alla neve, solo che non ci sono né alghe né pesci a toccarmi i piedi.
Oh fanculo!
Mi sfrego le braccia, lasciando che quella scia fredda mi colpisca solo la schiena.
Non c’è qualcosa che può andare per il verso giusto, ogni tanto?
Un pizzico di calore si fa strada nel getto del soffione. Ecco… Mi sorprende e mi ci abbandono.
Non mi ricordo chi me lo ha detto ma, a volte, un’imprecazione riesce a sistemare tutto.
Beh, forse… Forse non aveva tutti i torti.
Ora che l’acqua sta diventando calda va molto meglio. È come essere abbracciati.
«Come stai, cucciola mia?»
Il soffione ha una voce che somiglia molto a quella di mia nonna.
«Sto aspettando di diventare cibo per orsi o per topi.» L’acqua mi entra in bocca, ha un sapore orribile, di ruggine e stantio. Quanto vorrei un abbraccio adesso. Delle mani che non fossero le mie a sfregarmi il sudiciume. «Secondo te, sono più appetitosa per gli orsi o per i topi?»
«Per i topi.»
«Lo sapevo.»
«È perché sei dolce e loro amano lo zucchero.»
«Ma davvero?»
«Hai sempre avuto un grande cuore.»
Chiudo la mano destra in un pugno. Non mi ricordo chi me lo ha detto, ma, in teoria, il nostro cuore dovrebbe avere quella grandezza. Il mio è minuscolo. O forse è così perché le mie mani sono piccole? Me lo avvicino al petto. C’è battito, eppure mi sembra di averlo dato via.
Quando è successo?
A chi l’ho dato? E perché non me lo ha ancora riportato indietro?
L’acqua che sparisce nello scarico mi spaventa, come se potessi rimpicciolirmi e finire giù per quei quattro fori anch’io.
Giro la manopola e nonna smette di parlarmi di topi. Mi avvolgo nell’asciugamano e infilo un paio di ciabatte troppo grandi e sconosciute.
«Sei brava.» Questa voce non è della nonna, non la riconosco.
«A fare cosa? A fare finta che…» mi mordo la guancia. Non posso dirlo. Non devo dirlo.
Esco dal bagno e la porta in fondo al corridoio non c’è più. Mi irrigidisco. Ho paura, ma è solo uno stupido rettangolo vuoto che dà sull’androne di gradini mezzi distrutti.
A terra c’è un piccolo pacco.
Lo raggiungo. Lo stringo al petto, cercando di fermare l’asciugamano che vuole sfilarsi. I miei capelli gocciolano sopra al cartone. Lo poso sul divano scolorito e torno verso il bagno.
«Non lo apri?»
«Non è ancora il mio compleanno.» Le lacrime mi pizzicano gli occhi. L’ho messo io, questo pacco. So che dentro c’è un libro rovinato. Uno di quelli che ho trovato nella soffitta di questo appartamento che non è nemmeno mio.
Sbuffò e spio da un buco nel vetro rotto della finestra. Non c’è nessun furgoncino del corriere parcheggiato, devo immaginarmelo. L’erba sulla strada è così alta che mi arriva alla pancia. Se mi ci distendessi mi ingloberebbe.
Almeno sarei parte di qualcosa.
Mi strofino gli occhi, tolgo le lacrime. Il vento sta accarezzando quegli steli verdi e gialli e quel leggero movimento mi lacera. La nostalgia mi invade, entra dentro di me come se fosse un coltello che taglia una fetta di torta. Le rovine dei palazzi al di là del prato-strada mi ricordano che sono rimasta sola.
Se c’è qualche sopravvissuto, non l’ho ancora trovato.
La realtà mi urla addosso che non c’è nessun signor Wu al negozio di cianfrusaglie cinesi, o quella simpatica vecchietta che parla con le piante. O quel tipo che suona il violino e che abita qui di fianco, con cui ho sognato di prendere un caffè. La realtà mi sussurra che il tempo sta per finire, che forse è già finito.
Mi siedo sul divano, accanto al pacco. Abbraccio uno dei due cuscini rossi.
«Otto, cinquantatre, se-»
«Che cosa sono?» Il cuscino ha la voce di quel musicista. Lo stringo un po’ più forte.
«I numeri vincenti per la lotteria, li ho sognati prima.»
Vorrei che la casa mi avvolgesse, che mi portasse in un luogo diverso. Vorrei che i muri parlassero per davvero e mi dicessero che mi amano, che sono forte, che vivrò e riuscirò a sopportare tutto questo male. Vorrei che avessero la faccia di mamma e di papà, o l’ottimismo della mia migliore amica.
No. Non è rimasto nessuno. E mi sento così tanto come una corda spezzata. Mi sono riannodata così tante volte, per tornarmi utile…
«Hai mai provato a tirare una corda piena di nodi? Alla fine si scioglie.» La realtà ride insieme agli acufeni. Sono i lamenti dei morti. Diventano più forti quando le voci non parlano.
Se ci fossero delle tende le tirerei, non voglio vedere mostri o fantasmi. Il mio prossimo rifugio dovrà per forza avere delle tende.
Mi tolgo una ciabatta e la lancio contro il muro, come se potessi lanciare via anche il dolore.
Perché sono ancora qui? Perché io? Soltanto perché mi sono nascosta in tempo?
«L’uomo è sempre stato bravo a farsi del male.»
Un brivido mi sale lungo la schiena, dovrei finire di asciugarmi, dovrei rivestirmi. «Oh, ma tanto immagino che ora non importa!»
Immagino, sì.
E mi impedisco di crollare.
Ci può essere una punizione peggiore?