
Michele sfonda la porta.
Il lezzo urticante del fumo lo investe, filtra persino attraverso la maschera dell’elmo. Michele strizza le palpebre, poi si guarda intorno.
L’appartamento è popolato di fiamme. Michele irrora di schiuma i focolai più consistenti. Avanza. «C’è qualcuno?»
Nessuna risposta.
Chissà se Roversi e Minniti sono riusciti a entrare nell’appartamento al secondo piano. Le grida di aiuto che provenivano dall’interno erano strazianti. Non ci si abitua mai al terrore della gente intrappolata negli incendi.
Scuote la testa e scavalca un divano semicarbonizzato. Rivolge il getto della manichetta verso un focolaio che fa capolino dalla porta di un stanza e riesce a domarlo. L’ambiente è dominato da una densa cortina fumogena. Il campo visivo è annebbiato. «C’è nessuno?»
La gola comincia a pizzicare. Michele tossisce e ingoia saliva amara.
Si volta ed esplora il resto della casa. Non c’è altro che silenzio e devastazione.
Rimane da aprire un’ultima porta. Michele accosta la testa alla superficie del legno scuro e tende un orecchio. Forse ha percepito qualcosa. «Ehi! Chi c’è là? Sono un vigile del fuoco!»
Rumori. Mobili che si spostano. Colpi di tosse. Mugolii.
«Aprite! Dovete uscire immediatamente. La palazzina potrebbe crollare!»
Un finestrone del salotto esplode per il calore. Raggi di sole perforano un sipario di volute grigie sospese sopra una console antica mezzo diroccata.
«Non c’è più molto tempo!» esclama Michele, mentre picchi di adrenalina gli sferzano il cuore.
Un tintinnio di vetri riecheggia dietro la porta.
Michele afferra la maniglia e la abbassa. Al secondo tentativo ha la conferma che la serratura è bloccata. «Allontanatevi, sto per entrare!» annuncia.
Assesta tre vigorose spallate e la porta si ribalta con un tonfo rumoroso.
Michele alza la visiera, incapace di comprendere il senso di ciò che ha di fronte.
Non ci sono finestre e le pareti, candide come lenzuola fresche di bucato, sono occupate da scaffalature in metallo. Ogni ripiano e colmo di teche e barattoli in cui sono racchiusi…
Un conato gli torce lo stomaco. Le gambe gli diventano molli.
Sul pavimento, sotto le scaffalature, sono allineati diversi scatoloni con dentro montagne di peluche e giocattoli di ogni forma e colore. In alcuni intravede abiti da bambino avvoltolati.
«Dio santo benedetto» mormora sconvolto. Quale mente malata collezionerebbe così tanti piccoli crani?
Una risata asmatica proviene da una parete. Michele si avvicina con cautela. Sul bianco incontrastato nota un’escrescenza tondeggiante che sembra un pomello. Lo tira a sé e un pannello si separa dal muro, spalancando l’uscio di una stanza più piccola, rischiarata da una luminosità anemica. Sul pavimento giace un uomo sofferente dall’aspetto bizzarro: minuto, la testa priva di capelli e peluria, la pelle giallastra, gli abiti bruciacchiati. È circondato da barattoli vuoti. In fondo all’ambiente angusto c’è una specie di altarino di legno con sopra la foto di un bambino. I muri sono tappezzati di ritagli di giornale e altre immagini raffiguranti fanciulli di varie età.
L’uomo stringe tra le mani rachitiche un cranio, che accarezza amorevolmente.
Michele non riesce a parlare. Vorrebbe fuggire da tanto orrore, ma è paralizzato.
«Il mio bambino» sussurra lo sconosciuto, poi tossisce. Inspira ed espira un rantolo agghiacciante. «Ti piacciono i miei tesori?» Ogni sillaba vibra di una nota malsana.
Michele indietreggia. Non smette di tremare.
Lo sconosciuto ha gli occhi velati e persi nel vuoto. Accarezza ancora il cranio e fa uno strano sorriso.
Michele si guarda intorno ancora una volta. Là dentro è racchiuso un orrore senza fine.
«Michele!» si sente chiamare. È la voce di Roversi. «Abbiamo sgomberato l’edificio. Ma dove ti sei cacciato?»
Lui esce dalla stanza. Il collega si affaccia dall’ingresso. «Michele? Tutto bene? Hai trovato qualcuno? Forza, dobbiamo sbrigarci.»
Con la coda dell’occhio Michele scorge un focolaio che si è riattizzato. «No, qui non c’è nessuno» risponde. «Andiamo via.»