
«Ragazzi, negli spogliatoi!»
I bambini abbandonano i palloni sul prato sintetico e corrono verso la casupola prefabbricata. Raggiunta la soglia, mi volto in cerca dei soliti ritardatari.
Al limite dell’area, Mattia si prepara a calciare in porta. Il padre lo osserva con una bottiglia di birra che penzola dalla mano, appoggiato alle barriere tra gli spalti e il campo. La rincorsa del bambino è pesante e scoordinata, come quella di chi ha passato più tempo sul divano che a giocare all’aperto. La palla, appena scheggiata di punta, rotola fiacca verso la linea di fondo. Mattia s’affretta a recuperare la sfera per tentare di nuovo la fortuna.
«Matti, dai, Vieni.»
Il bambino si blocca, la palla tra le mani, indeciso se ascoltare me o il bisogno di attenzione da parte del padre.
«Avanti» lo incalzo.
Mattia lascia cadere il pallone e mi obbedisce.
«Magari oggi è l’unico gol che fate, Mister!» La voce gracchiante del padre evolve in un gorgoglio catarroso, che si esaurisce in un plateale sputo in terra. «Lascialo tirare! Hai sentito? Oh, ma questo è pure sordo!»
Costringo lo sguardo su Mattia che mi corre incontro. Mentre sgattaiola nello spogliatoio, gli do un buffetto sulla testa bionda. Attraversa il frastuono dei compagni e raggiunge il suo borsone.
Entro e chiudo la porta alle spalle. Batto le mani per pretendere silenzio. Niente come l’annuncio dei titolari li sa zittire.
«Oggi siamo solo in sei quindi giocherete tutti a sufficienza. Iniziamo con Max in porta, Lele centrale, Giò a destra, Luca a sinistra e Ricky punta.»
Mattia alza la mano. «Poi entro anch’io?»
Gli sorrido. «Ti assicuro che dopo sarai parecchio stanco.» La delusione abbandona il suo viso. Mi rivolgo poi a tutta la squadra. «Forza, in campo!»
Mattia ed io usciamo per ultimi. Gli altri bambini sono già disposti sul terreno di gioco, impazienti di cominciare. Noi sediamo sulla panchina. Mi tira la manica della tuta. «Mister? Oggi faccio gol!»
Lo spettino. «Tu provaci, Matti.»
Un boato scuote la panchina. Vedo suo padre scalciare la copertura in plexiglass. Dalla puzza, quella non era la prima birra. «Perché non lo fai giocare?»
Mi alzo di scatto e riparo il bimbo con un braccio.
Mi si para davanti. «Non gioca perché ce l’hai con me, stronzo?»
Appoggio una mano sul petto del padre. «È meglio se va via.»
«Che cazzo tocchi?»
Mattia strilla e scappa nello spogliatoio. Un istante dopo sono a terra, imploso di dolore dalla fronte in giù. Sapore di sangue sulle labbra. Tasto il naso. Le dita si impastano di rosso. Il grugno dell’uomo mi squadra dall’alto. «Non fai più il fenomeno?»
Mi rialzo. Sposto un piede indietro, deciso a ricambiare la testata.
Alle sue spalle, scorgo i volti atterriti degli altri bambini.
Sto per fare una cazzata. Lo so.
Chiudo gli occhi ed espiro profondamente. Guardo i miei bambini. «Ragazzi, partita annullata. Andiamo a consolare Mattia.»
I bambini scattano senza fiatare. Li seguo.
Il padre grida «Dove scappi, coglione?»
Il silenzio di tutto il campo gli fa eco.