Seconda occasione

I suoni dell’alba mi svegliano. La calma lascia spazio al caos cittadino, senza il quale mi sentirei perso. La quiete va bene per farsi coccolare sotto le lenzuola ma, per vivere, per scandire il tempo e lo spazio, mi serve quel caos.
Il mio gong biologico mi avverte che devo alzarmi.
È un’abitudine che ancora mi porto dietro: mettermi in piedi prima che scadano i dieci secondi. È la prima cosa che mi insegnarono alla Gleason’s Gym.
Andavo forte. Mi ritorna in mente, ancora una volta, la sera del grande incontro.
 
«Eddai, ancora a prepararti?» Mike, il mio allenatore, era venuto a prendermi a casa. «O te la credi troppo o te la fai sotto. E nessuna delle due cose promette bene.»
«Fatto…» Feci una pausa approfittando di controllare a vista che avessi preso tutto. «Possiamo andare.»
Percorremmo la Columbus, fino a incrociare la 7a, per poi tirare dritto al Garden. La locandina formato gigante della prima di Alien occupava tutta la facciata d’ingresso della Penn. Ancora non riesco a stabilire se mi facesse più paura il campione del mondo o quel mostro grondante resina. C’era in palio il titolo mondiale dei pesi welter e io ero lo sfidante.
L’occasione di una vita.
 
L’unico ricordo che conservo delle ore che seguirono la fine dell’incontro è il buio della mia stanza al Lenox Hill. Mike entrò, lo riconobbi dalla puzza di aglio. Quell’italo-americano l’avrebbe messo anche nel latte della mattina. Buttò il culo su una sedia e mi disse: «Quel bastardo ha tolto l’imbottitura dai guantoni. I suoi pugni erano pietre.»
 
Dicono che la vita non offra seconde occasioni. Ma io non ci credo.
Esco dalla mia casa sulla 125a e aspetto, riempendomi le narici dell’aria di Harlem.
La zaffata di dopobarba Floid, intrisa di fumo di sigaretta, mi arriva come un diretto fulmineo: è Tony, il figlio di Mike. «Sei pronto?» La voce è roca e profonda. Non serve il tatto per capire che lui è un armadio.
«Ne vedremo delle belle.» Sorrido sardonico. «Andiamo.»
 
All’interno dell’Empire, siamo tutti tesi, pronti a scattare. Non posso sperare di fregare qualcuno allo sprint, mi farò trasportare dall’ondata di corridori.
La sirena urla l’inizio della Run-Up. Parto e arrivo al primo scalino. A tastoni riesco ad afferrare il corrimano alla mia sinistra. Un fiume di corridori scorre veloce alla mia destra, ma non importa. A me interessa soltanto arrivare.
La salita è fattibile. Ogni piano è uguale all’altro. Una scala a L, poi un pianerottolo e si ricomincia. 1462 passi in totale. Devo solo contare e tenere duro.
Le gambe sature di sangue. Ogni passo è una lancia infuocata che penetra il quadricipite. Il cuore sta per esplodere. Ho perso il conto a 1224 passi ma sento che ci sono.
Lo speaker annuncia il mio arrivo: trentadue minuti e rotti, ma chi se ne frega.
Mentre ascolto gli altri godersi il panorama – Brooklyn, i ponti e Lady Liberty –, realizzo che l’unica cosa che voglio è lanciare uno sguardo di rivincita al Garden.
Come se potessi.
Chiedo a un corridore di portarmi sulla vista verso la Penn. L’ultimo ricordo risale a quella sera in cui mi sono sentito come inghiottito dal mostro di Alien, dilaniato dalle sue fauci una volta finito l’incontro. Adesso se il mostro potesse guardarmi si sentirebbe piccolo e mi vedrebbe troneggiare su di lui. Quella sera si prese i miei occhi.
E oggi io mi sono ripreso la mia cazzo di occasione.