Una vecchia ferita

La sala d’aspetto è quasi vuota. Succede sempre così nel week end, perché non ci sono gli studenti e i pendolari e per me è il momento migliore per viaggiare. Il mio in realtà è solo un piccolo spostamento, da Ostiense prendo il treno per andare alla Stazione Termini e da lì prendo l’autobus per il cimitero.
I fiori me li porto da casa, li coltivo sul balcone, è come se lasciassi sulla tomba dei miei genitori un pezzetto della casa dove hanno vissuto per quarant’anni. Scosto la busta che ho in grembo per osservare meglio l’uomo che siede di fronte a me, non so spiegarlo ma ha qualcosa di famigliare.
È intento a digitare qualcosa al cellulare, mentre il bambino che è con lui sgranocchia con gusto dei pop corn. Indossano entrambi una tuta da ginnastica, forse sono tra i podisti che hanno partecipato alla maratona.
Il bambino cerca di attirare l’attenzione del padre, è decisamente annoiato ed è allora che incrocio i suoi occhi, anche se solo per un attimo.
Attilio Corsi. Quinta B, due file dopo la mia.
Per un istante smetto di respirare, ma lui non mi ha riconosciuta. Del resto, come potrebbe? Sono ingrassata e poi ho smesso di tingere i capelli e dimostro molto più degli anni che ho. Lui invece è decisamente tonico, ha i capelli corti come allora, solo il viso tradisce il tempo trascorso. Ha profonde rughe di espressione ai lati della bocca e sulla fronte e due lunette scure sotto gli occhi, che fanno risaltare ancora di più il grigio che a volte vira sul verde.
Mi fa lo stesso effetto di allora: una carezza sul cuore e un pugno nello stomaco.
Se solo sapessi, Attilio, quanto ti amavo! Ti amavo a tal punto che non mi importava quando mi insultavi davanti ai nostri compagni solo perché i miei non avevano abbastanza soldi per comprarmi cose alla moda e indossavo gli abiti dismessi dei miei cugini, fuori tempo e fuori luogo.
E non mi importava neppure quando strappavi le pagine dei miei libri e le trasformavi in aerei da far volare fuori dalla finestra e poi scommettevi con i tuoi amici quale sarebbe arrivato più lontano.
Assurdamente pensavo che la tua indifferenza sarebbe stata peggiore e accettavo le angherie con la segreta speranza che un giorno le cose sarebbero cambiate. Invece è stato così per ogni santo giorno, fino al diploma.
Alla fine tuo figlio ha vinto e ti sei alzato a malavoglia per assecondarlo. Hai messo il cellulare nella tasca e ti sei diretto verso l’uscita.
Mi sento come allora, quando trovavi un diversivo, un altro gioco e ti dimenticavi di me. E io finalmente potevo guardarti senza paura, ascoltare la tua voce, la risata inconfondibile che metteva allegria e a volte sorridevo anch’io alle tue battute, come se facessi parte della tua combriccola, come se quello che facevi mi riguardasse.
Chiudo gli occhi e faccio un bel respiro e quando li riapro tu sei davanti a me. Me ne sono accorta perché hai coperto la luce al neon. Mi sento come una formica che vede il piede che si solleva e la sovrasta.
“Te lo devo chiedere, perché mi sembri proprio una mia compagna di classe” dice.
La sua voce è cambiata, si è fatta più intensa, più dolce. Deglutisco e annaspo cercando qualcosa di interessante da dire, sento che potrebbe essere tutto diverso adesso, in fondo non siamo più due adolescenti. Apro la bocca, ma le parole muoiono ancora prima di essere pronunciate.
“Non puoi essere tu” conclude dopo avermi squadrata. “Sei troppo vecchia.”