
“Fate entrare la Bestia”. La voce del Commissario ha un che di euforico.
Ci siamo, penso.
Un poliziotto brufoloso controlla che la gabbia in cui sono imprigionato sia ben fissata al carrello, poi mi porta davanti al suo capo.
I commenti delle guardie arrivano confuse a tutte e quattro le mie orecchie. “Che schifo! Fa proprio schifo!”, è l’unica frase che distinguo tra i ringhi bisbigliati. Quattro orecchie sono un vantaggio se ascolti buona musica, ma diventano una tortura se ti tocca sentire quello che non vuoi ascoltare.
Uno di loro mi sputa addosso, dove si toccano le spalle. La sua saliva mi cola addosso, densa e gialla.
“È un mostro, è davvero un mostro! È contronatura!”.
“Disumano!”.
Arrivano confuse le voci, sì, ma con quattro orecchie qualcosa lo sento. Non vedo quanto accade intorno a me. I miei occhi sono fissi nei miei occhi. Mi perdo nel loro nero. Mi perdo nel loro verde. Come mi ci sono perso da quando esisto. È lì che vivo. È solo lì che sono io. In quello sguardo.
I due alluci destri mi fanno un male cane, i sinistri sono quasi atrofizzati. Due delle mie quattro mani mi scostano i capelli biondi e si fermano su due orecchie, tappandole. Così non senti, mi sussurro dolcemente. Le altre due mani non sono così veloci, non sono mai state tanto pronte e mi stringono i fianchi fino a lacerarmi la pelle con le unghie.
Stai tranquillo, stai tranquillo la mia voce più calma, quella dalle mani pronte, quella coraggiosa è come un soffio morbido sulle mie gote.
Sudore freddo mi copre come una patina di rugiada la pelle nuda, pelosa, esposta. Stai tranquillo, mi ripeto e poco a poco. Le mani abbandonano le orecchie e mi accarezzano la schiena, risalgono fino alla nuca, indugiando piano sulla cicatrice.
Ho un fremito di piacere, quando con i polpastrelli la scorro tutta. Solo io conosco la mia intimità profonda. Solo io so quali punti mi provocano piacere e quale tocco sa calmarmi i nervi.
Solo ora le altre mani sono libere di lasciare la presa dei miei fianchi ormai segnati dalle unghie.
Io mi conosco.
Io mi calmo.
“Eccoci qui”, il tempo, la vita, tornano come un calcio in bocca, insieme alla voce del Commissario, “questa immonda Bestia!”. Le mie dita continuano ad accarezzarmi la cicatrice.
Chiudo gli occhi.
Tutti e quattro.
Respiro a stento.
“Questo schifo contro natura che solo una società malata poteva produrre!”.
Lo sento che fa avanti e indietro intorno alla mia gabbia.
“È per debellare uno schifo come questo che sono entrato nella Polizia della Morale. Non ne potevo più di monnezza e bestialità: maschi che fanno le femmine, femmine che fanno i maschi, donne con donne e poi, i più immondi, uomini che vanno con altri uomini! Come questa Bestia che mi trovo qui davanti. Due uomini nudi e abbracciati, mi viene da vomitare…”. La voce del Commissario è sempre più rabbiosa. “E guardatemi quando vi parlo, sto parlando con voi, froci schifosi!”.
Mi afferra per un braccio e mi scuote.
“Vi ordino di guardarmi!”.
Stringo forte le mandibole.
“Separate questi due finocchi e portateli nelle loro celle!”.
Due guardie mi afferrano e mi strappano da me stesso, a me stesso.
Vedo i miei occhi che si allontanano.
Non mi sento più il mio respiro addosso.
Gli alluci si staccano dal punto in cui erano stati incollati per ore.
Tendo le mie mani destre l’una verso l’altra. Si sfiorano per l’ultima volta. Il polpastrello dell’indice abbandona il polpastrello dell’indice.
È fatta, penso. Ce l’hanno fatta. Ora non siamo più uno, siamo due. Non sono più io. Siamo noi. Neanche noi, siamo lui e lui.
Le guardie ci insultano e ci allontanano.
“Ti amo, Antonio!”, mi arriva ancora la sua voce calda.
“Ti amo anche io, Paolo”, riesco a leggere dal suo labiale.
“Smettetela con queste schifezze! Tornate veri uomini!”.
Una fitta al petto, ne siamo certi, ci prende entrambi.
È il mio cuore, torniamo a pensare, per un secondo.
È il mio cuore, in questo dolore siamo ancora uno.