Il centotredicesimo piano

Una riflessione sociologica, un appunto sull’adattabilità che non sempre privilegia la scelta migliore, un faro a illuminare il male oscuro dell’uomo. Un racconto di Andrea Viscusi.

 
Il sole ruota intorno a noi mentre ci arrampichiamo lentamente. Kurt mi precede. Questo vuol dire che è lui a trovare la strada, ma anche che se dovesse scivolare sarei io a sostenere il suo peso in cordata. Non so se ne avrei la forza, coi muscoli doloranti. Ma ho con me il machete, e non esiterei a usarlo.
 
Si erano spostati lì alla fine dell’inverno precedente. Il freddo tremendo di quella stagione aveva costretto il clan a cercare un posto più riparato, e avevano scoperto che i grattacieli della città costituivano un’efficace barriera contro il vento.
Avevano stabilito il campo e battuto la zona in cerca di cibo e acqua: ce n’era in abbondanza per tutti. Con un po’ di fortuna, avrebbero potuto stabilirsi lì anche per un paio di anni.
Non se n’erano accorti subito. Era stato solo durante la loro quarta notte tra le rovine metropolitane che avevano visto la luce. Veniva dall’alto, dalla cima di un palazzo lontano qualche chilometro. Era intensa, limpida. E non si spegneva mai.
 
Siamo quasi in cima. Procediamo con estrema cautela, il baratro al di sotto è impressionante e le vesciche sulle mani impediscono una presa stabile. Ma ora che sta calando il crepuscolo, iniziamo a scorgere il bagliore della luce. Per adesso è fioco, ma al buio rischiarerà tutto intorno a noi.
 
«Dobbiamo scoprire cos’è» ha dichiarato Kurt al consiglio, una notte in cui era già abbastanza caldo da poter rimanere all’aperto, riuniti intorno al fuoco. Il capo è lui, ma sa di dover ricevere l’approvazione del consiglio per una missione del genere.
«È una follia» ha risposto subito Egon. «Non ci serve la luce. Abbiamo già trovato tutto quello che cercavamo.»
Si oppone alla proposta, ma gli altri sanno che la sua è una sfida all’autorità di Kurt. Più giovane, più forte, più arrogante: vuole dimostrarsi degno di essere un capo.
«Tu sei troppo piccolo, non ricordi. Ma prima della tempesta solare la luce era ovunque, anche di notte. Se potessimo riavere l’uso dell’elettricità torneremo ad essere un mondo civilizzato.»
Borbottii, colpi di tosse. Ghigni.
Egon si alza in piedi. La luce, quella luce, illumina i suoi occhi astuti. «Va bene. Andremo noi due, domani.»
 
«La vedo!» esclama Kurt, eccitato. Con il suo piccone spacca il vetro, si issa, entra dentro. Sento la tensione della corda allentarsi. Proseguo fino alla finestra rotta (le ho contate, questa è la centotredicesima) ed entro anch’io.
Al centro della stanza c’è un oggetto conico appeso al soffitto. Al centro una sfera luminosa, accecante nel buio che ci circonda.
«Una lampadina» mormora Kurt. «Funziona! Capisci cosa significa, Egon?»
Mi avvicino anch’io all’oggetto. Lo guardo dal basso: è piccolo, lucido. Emana una luce giallognola, malsana. Cattiva.
«Sì, capisco» rispondo a Kurt.
Sollevo il machete e colpisco la sfera, che si frantuma e si spegne.
Poi, nel buio, lo alza ancora.
 
Egon torna al villaggio da solo. Gli altri chiedono cosa è successo. Lui inventa una storia. Sa che, nel buio, nessuno ha visto il corpo di Kurt precipitare.

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