Una giornata infernale

Se c’è una cosa che odio, è essere disturbato nel mezzo di una possessione.
Lei era la figlia dodicenne di un allevatore di polli di Albany e il sacerdote della comunità, arrivato nel bel mezzo della notte, mi stava facendo patire le pene dell’inferno. Era un vecchio coriaceo con ampolle d’acqua santa anche nelle mutande, conosceva il Vangelo a menadito e non s’è scoraggiato nemmeno quando gli ho pisciato addosso sangue dalla fichetta della figlia del pollarolo.
S’è passato la manica sulla faccia e ha continuato a invocare il Signore sventolando il crocefisso.
Io tenevo duro e quella ragazzina sarebbe diventata la mia nuova dimora se Astaroth, durante i cinque minuti di tregua concessimi dal prete, non fosse venuto a dirmi che era successo di nuovo.
Sapevo di cosa stesse parlando. Quella storia andava avanti da troppo tempo.
Gli ho detto che non potevo lasciare il lavoro a metà e che avrebbe dovuto occuparsene di persona, ma lui ha detto chiaro e tondo che a Roma non ci avrebbe rimesso piede. Troppe chiese. Troppi preti. Vaticano dietro l’angolo.
«Senti Belphegor» ho detto, «lui non s’è mai fatto problemi a servire nell’Urbe.» Mi ha riferito che Belphegor era impegnato in Giordania e neppure Baal era reperibile perché avrebbe fatto precipitare un pullman di suore tedesche da un cavalcavia.
«Moloch che fa?» ho chiesto.
«È ammalato.»
«Belzebù?»
«In ferie.»
«Lilith?»
«Marcia su New York. Sta per scatenare un uragano che in confronto il Katrina sembrerà una secchiata d’acqua.»
Non mi andava di abbandonare la calda guaina che era il corpo della ragazzina, ma non avevo scelta: il diavolo è un tipo impegnato e il suo attaccamento al male lo si vede dalle piccole cose.
Ho ordinato ad Astaroth di tenermi in caldo la pollastrella e un minuto dopo ero a Roma, fuori dai cancelli di Cinecittà.
 
Noi demoni siamo una razza che non si riposa mai perché oltre alle ordinarie mansioni (possessioni, malefici, tentazioni), dobbiamo sbrigare pratiche davvero noiose, come castigare certi arroganti individui che si credono più furbi di noi. In quel caso si trattava di dare una lezione a uno stuntman di Tor Bella Monaca che aveva l’abitudine di terminare ogni affermazione con la frase: «Mi ci gioco la testa col diavolo.» Lo diceva al bar con gli amici, a tavola con la famiglia, mentre lavorava.
Cosa volesse dimostrare non l’ho mai capito: so solo che certa gente dovrebbe pensarci due volte prima di tirarmi in ballo.
Io ero in sella a una Ducati Monster, indossavo un casco rosso fiammante e quando il tamarro è uscito da Cinecittà sulla sua Yamaha e s’è immesso sulla Tuscolana, l’ho seguito fino al primo semaforo e gli ho proposto una garetta fino a quello successivo.
«Scommetto che non hai le palle» l’ho provocato senza alzare la visiera e sapete cos’ha risposto?
«Mi ci gioco la testa col diavolo.»
Al verde siamo partiti a razzo.
110, 120, 130.
In mezzo al traffico come in “Ghost Rider”.
Poi l’ho spinto a destra, lui s’è rifatto sotto e io l’ho stretto verso le auto parcheggiate fino a un passo carrabile dove sapevo che un furgone avrebbe fatto marcia indietro con un carico di lastre di vetro sporgenti dal cassone.
Zack!
Taglio netto e la testa, saltando, è atterrata sui cartoni delle pizze sorretti da un passante con le sopracciglia rifatte appena uscito dai “Fratelli La Bufala”.
Sono corso via impennando e manco a dirlo quella giornata infernale non era finita, perché c’ho messo un’ora a convincere Astaroth a ridarmi il corpo della dodicenne.