
Esplorare nuovi universi per… creare nuovi schiavi. Un racconto di Maria Rosaria Del Ciello.
«Ci dispiace molto che l’intervento non sia riuscito. Possiamo comunque procurarle un nuovo modello e trattenere il suo.»
L’uomo grasso parla senza guardare l’altro negli occhi, continuando a fissare lo schermo del cellulare che ha in mano. Gocce di sudore gli imperlano la fronte.
«Ma quanto mi verrà?» chiede l’altro.
«Non molto, stia tranquillo. Valuteremo bene il suo esemplare. Anche se malridotto ha organi funzionanti alla perfezione. Li abbiamo testati. Le donne degli altri Universi hanno un’ossatura debole ma gli organi interni difficilmente si danneggiano in modo grave.»
«Ancora non mi capacito di quanto sia durata poco…» e l’uomo si volta verso il mio corpo immobile. Leggo nei suoi occhi solo disprezzo.
«Succede spesso, sa?» risponde l’altro, quasi a volerlo consolare. «Quelle come la sua, proveniente dall’Universo delle Terre Vicine, sono soggetti deboli e remissivi. Per questo siamo riusciti a dominarli senza grosse difficoltà,» e mentre lo dice strizza un occhio «però, come le dicevo, la loro struttura ossea è debole, hanno una durata complessiva abbastanza breve e per questo costano meno.»
«Però mi avevano garantito che fosse praticamente come quelle più costose.»
Il venditore abbozza un sorrisetto. «Capisco, capisco. Se mi segue in ufficio possiamo concludere l’affare.»
Continuano a parlottare, mio marito con quel tipo calvo e panciuto che non fa che asciugarsi il sudore sulla fronte, poi li vedo chiudere la porta della stanza alle loro spalle.
Rimango in compagnia di una donna, nel letto accanto al mio. E comincio a ricordare qualcosa.
«Fai la giravolta, falla un’altra volta!» le manine di Anna stringono le mie e cominciamo a girare in tondo. Una, due, tre, tante volte, fino a che non perdo i sensi e mi piego prima sulle ginocchia, poi cado lunga per terra.
«Alzati mamma! Facciamolo ancora…» incita lei, continuando a volteggiare nella sala.
Poi, d’improvviso, si blocca. Il cigolio di una chiave che gira nella serratura di casa e lei corre incontro al padre, gli getta le braccia al collo e comincia a sbaciucchiarselo.
«La mia principessa ha fatto stancare anche oggi la mamma?»
La piccola, otto anni appena, lancia uno sguardo carico d’odio verso la mia sagoma stesa sul pavimento e sentenzia:
«Stancare quella? È solo un rottame. Quand’è che la cambiamo?»
Da un po’ in casa non si parla d’altro: rottamare la mamma. In molti l’hanno fatto e assicurano di essersi trovati bene. Prima o poi accadrà. Mi daranno via in cambio di qualche mamma più efficiente; pare che le nuove generazioni del mio Universo abbiano sviluppato una resistenza maggiore. Ma anche una nuova consapevolezza. Chissà cosa ne sarà di loro…
Alla fine ci sono riusciti.
Mi hanno portato in quest’ospedale con la scusa di rimettermi in sesto. Hanno rinunciato alla “rottamazione” e preferito la “riparazione”. All’inizio ero contenta perché questo significava che un po’ si erano affezionati a me e preferivano tenermi con loro, anziché sostituirmi con un modello nuovo e più efficiente. In fondo mi vogliono bene, mi piaceva pensarlo. Ma da questi terrestri ho imparato a vedere oltre le mie fantasie. La “riparazione” costa molto meno e questo deve essere stato il motivo reale della loro scelta.
Nel corso degli interventi per rimettermi in sesto, però, qualcosa non deve essere andata per il verso giusto perché mi trovo ancora qui e invece sarei già dovuta essere a casa.
Pensavo dovessero sostituirmi semplicemente le parti danneggiate, un intervento di routine dopo il quale sarei potuta tornare a vivere in famiglia. Acquisita, ma sempre la mia famiglia. Invece hanno smaneggiato un po’ nel torace, hanno richiuso tutto e ho sentito quelle persone in camice bianco parlare tra loro, senza riuscire a capire cosa stessero dicendo.
«Non ci torni a casa, stanne certa» ha sentenziato la donna stesa nel letto accanto al mio.
Un lieve dolore alla base del collo, come una puntura e tutto è diventato buio.
Quando ho riaperto gli occhi, ho scoperto di essere immobilizzata in questo letto.
A quanto pare ora non sono più al servizio di un compagno, di una famiglia, ma di quanti avranno bisogno di qualche organo da sostituire: un fegato, un rene, un pancreas. Così mi ha spiegato la vicina di letto, anche lei dell’Universo delle Terre vicine.
«Siamo una specie arrendevole e gli abbiamo permesso di diventare i nostri padroni. Questo è il risultato.» La donna accanto a me parla piano, con un filo di voce che tradisce però tutta l’amarezza delle sue parole.
Sempre lei ha parlato di una discarica, poco lontana da qui, dove vanno a finire tutte quelle come noi alla fine del “ciclo di riutilizzo”, come viene chiamato.
Chiudo gli occhi di nuovo, stavolta per mia volontà. Un calore, mai provato prima, mi assale e mi prende alla testa. La chiamano rabbia, qui. Nel mio Universo era un sentimento sconosciuto.
Insieme alla rabbia sento uscire dagli occhi dell’acqua.
Anche questa per me è una cosa nuova: le chiamano lacrime.